Recensione: Isolation
Il 2020 ci ha sorpreso con ottime uscite in ambito Doom e Stoner, alcune delle quali davvero raffinate. Ne sono esempi “Forgotten Days” dei Pallbearer e “Omens” degli Elder: due album che, pur rimanendo fedeli al “marchio di fabbrica” di queste band, hanno cercato di alzare l’asticella mediante l’esplorazione di nuovi paesaggi sonori e l’elaborazione di soluzioni molto ricercate. Aggettivi come “raffinato” e “ricercato” non sono invece assolutamente adatti a descrivere “Isolation”, l’ultima fatica in studio dei Sons Of Otis, che, al contrario, fa di abrasività e rudezza i punti chiave della propria proposta.
Nata nel 1992 a Toronto su impulso del cantante e chitarrista di Detroit Ken Baluke, nel giro di un paio d’anni la formazione si stabilizza con l’ingresso del bassista Frank Sargeant e dà alle stampe l’EP “Paid to Suffer”. Nel 1996 è la volta dell primo full lenght “Spacejumbofudge”, il cui suono è improntato su fumose strutture Stoner, filtrate attraverso una nebbiosa coltre di oscuro Doom e rifinite con un’abbondante dose di psichedelia. Questa contestualizzazione per chiarire come i Sons Of Otis, benché mai sufficientemente ricordato, siano da annoverare tra le realtà seminali dello Stoner/Doom metal. Agli appassionati non sfuggirà infatti che le prime uscite di rilievo ascrivibili a questo sottogenere risalgono grosso modo al periodo in cui il combo dell’Ontario muoveva i primi passi: l’indiscusso capolavoro “Holy Mountain” degli Sleep usciva nel 1992, mentre il debut degli Electric Wizard (ancora orientato a sonorità più prettamente traditional Doom) nel 1994.
Se nei primi lavori dei Sons Of Otis la componente psichedelica è predominante rispetto a quella oscura, comunque già ampiamente presente, sono gli album realizzati nel nuovo millennio a suonare più sinistri e maligni. Non sappiamo, ma possiamo sospettarlo, se a invigorire la l’aspetto mortifero del sound della band possa aver contribuito il tour nordamericano che i ragazzi intrapresero nel 2002 in (malsana) compagnia di Electric Wizard e Unearthly Trance e, quindi, le influenze che da questi derivarono, ma sta di fatto che “Isolation”, uscito per Totem Cat Record a otto anni di distanza dal suo predecessore (“Seismic”), è un condensato di musica nerissima e allucinata, piena di riferimenti all’immaginario lovecraftiano e al cinema horror.
“Hopeless” assicura una partenza tenebrosa: il riff, macinato da una chitarra dall’accordatura bassissima, si ripete con andatura estenuante negli oltre sette minuti del pezzo, sostenendo una voce che sembra farsi strada dalle profondità più recondite del cosmo. Nella successiva “JJ” il registro non cambia, se non per i brevi assoli psichedelici che rendono l’atmosfera più lisergica. In “Trust” la voce di Ken Beluke è appena percepibile: la scena è quasi completamente lasciata a una chitarra, perennemente in “wah wah”, che disegna il riff principale da cui saltuariamente si discosta per tessere trame di orrorifica psichedelia. “Blood Moon” è il passaggio più maligno dell’album, in cui un cantato torturato si lega a un riff dissonante sviluppato su un tritono, l’intervallo di tre toni tra una nota e l’altra, chiamato anche diabolus in musica e proibito nel Medioevo, che i Black Sabbath utilizzarono per creare l’omonimo pezzo del 1970 da cui tutto ebbe inizio…
Dopo questi nove minuti di pura malvagità è il turno di “Ghost” che, per quanto non sia una easy listening, distende un po’ le atmosfere, più inclini a un mood da trip cosmico. A chiudere le danze ci pensa la strumentale “Theme II” che, non discostandosi da quanto sinora sentito, è idealmente la prosecuzione di quella “Theme” contenuta nell’esordio “Spacejumbofudge”.
La produzione scarna cattura pienamente la ruvidità di un suono che, a causa delle bassissime frequenze di basso e chitarra, è talmente slabbrato da dare spesso l’impressione di essere sul punto di implodere per poi, non si capisce come, risollevarsi. La modulazione delle linee vocali è coerente con le intenzioni della band: a seconda dell’effetto ricercato sono poste in primo piano o utilizzate come mero ronzio di sottofondo.
La forza di “Isolation” risiede innanzitutto nella sua onestà: semplice, volutamente iper-ripetitivo e dal feeling decisamente negativo, è evidente come i Sons Of Otis suonino questi oscuri mantra in primo luogo per loro stessi, in una sorta di catarsi finalizzata ad esorcizzare i propri demoni. Se poi qualcuno apprezza tanto meglio …