Recensione: It Works!
Quante volte ci siamo addentrati in quel laboratorio, abbiamo disceso quelle profondità recondite della nostra conoscenza sulla vita, nella speranza di trovare in esso verità occulte e celate al senso comune? Era l’inizio del 1800, ed una giovanissima Mary Shelley, all’epoca amante di Lord Byron, stendeva un breve romanzo che avrebbe condizionato l’immaginario dei secoli successivi. Qualche anno prima il fisiologo Luigi Galvani aveva scoperto che alterando l’intensità della carica elettrica sul corpo morto di una rana, i suoi muscoli subivano delle contrazioni in maniera proporzionale alla carica esercitata. Il fenomeno fu chiamato, appunto, galvanismo. La scoperta aveva dell’incredibile: che fosse l’elettricità il segreto della vita? Per la diciannovenne Shelley, autrice di “Frankenstein – or the modern Prometheus”, poteva funzionare. It works! Si… può… fare! in termini cinematografici a noi contemporanei.
Mentre il segreto della vita rimane un mistero ed il galvanismo formulato all’epoca non è che una teoria superata, siamo invece ben certi che una carica elettrica passante attraverso un cavo jack-jack che collega amplificatore e chitarra può suscitare altrettanta meraviglia. Lo sa bene Matteo Brigo, lo scienziato pazzo della nostra storia: un giovane shredder, compositore, musicoterapeuta e proprietario del laboratorio che siamo venuti a visitare – autore del debut “It Works!”, un singolare quanto paradossale esperimento tra shred classico e sonorità ispirate dal cinema fantascientifico e dai videogiochi nonsense anni ’80 e ’90.
“Kaboom!”. It all started with the big bang. Tutto nasce da un’esplosione, da un riff portante che muta rapidamente come la nuvola di fumo dopo la deflagrazione: il brano di apertura è vivace, ricco di armonizzazioni, cambi di tempo e di venature progressive, con tanto di botta e risposta finale tra tastiera e chitarra. Spetta a poche note di pianoforte spezzare il ritmo, per poi ripartire con l’idea di “Great Scott”, accompagnati da una linea di basso martellante. A metà brano la batteria inizia ad aggredire, altro piccolo stacco di pianoforte e via con il refrain che porta alla conclusione.
Il mood cambia drasticamente in “Into The Lab”: ora si fa più misterioso, complice il lavoro delle tastiere sulle retrovie, pur sempre con la grande dose di ironia che pervade il lavoro. Si viene a creare l’immagine di un laboratorio tetro ed oscuro, ma la chitarra di Matteo aleggia in esso come lo scienziato saltellante ed affaccendato tra cavi, lavagne e provette.
Avanti tutta con la titletrack. Ci siamo. “It Works!”. Lo scienziato ha creato la vita. Il ritmo accelera non a caso, e di nuovo il giovane maestro può dare sfogo a tutta la sua creatività: il tema principale viene ripetuto incessantemente con numerose variazioni, c’è un momento di calo a metà, poi fuoco alle polveri: una dimostrazione di velocità e precisione nel legato light-speed a tre quarti del brano, incisivo quanto contenuto, a dimostrazione della maturità e nel gusto del comporre di Matteo e del suo equilibrato senso della misura.
Qualcosa non va. L’esperimento non era forse riuscito? “Ab-normal” è un brano più serioso, straniante nell’arpeggio e nei fraseggi, quasi minaccioso. La batteria scandisce un battere e levare quasi militare, mentre la creatura palesa le sue bizzarre deformità. Ma siamo certi che lo scienziato la amerà lo stesso.
Ritorno a… ritmiche serrate. Forse si può fare ancora qualcosa per risolvere l’intreccio. “To the time machine”. Una corsa verso la macchina del tempo per un altro centro perfetto di velocità e precisione. Il compositore è anche bravo a scandire le fasi della fabula, con uno stacco a tre quarti del brano che lascia davvero piacevolmente sorpresi: un’altra piccola gemma ad intarsiare questo lavoro.
C’è spazio anche per una citazione a Jessica Fletcher, in “Murder: they wrote”. Dove c’è un omicidio, la celeberrima “Signora in Giallo” arriva alla sua macchina da scrivere, con il ticchettio della linea di basso e le atmosfere burtoniane evocate da questo breve brano di intermezzo. Per citare il bardo: “something wicked this way comes”.
Multiversi. Paradossi. Realtà parallele. Lo scienziato ha perso il gomitolo del continuum – o forse tempo e spazio non sono che illusioni. “Multidimensional scaling” è di nuovo un brano più heavy con armonizzazioni ed effetti… che ci porta dritti nel paradosso: “Super Paradox Combo”, il singolo dell’album, una vera summa di quanto ascoltato fin qui. Divertimento allo stato puro, follia traboccante ed un senso della melodia che ricorda molto da vicino il primo Satriani.
“Who Knows”? Finale dolceamaro ma reale quanto la vita, la scienza, la conoscenza tutta, con la chitarra che riverbera verso l’infinito, in un crescendo emotivo che termina come un tuffo verso l’ignoto con un fade-out. Eravamo convinti di avere scoperto il grande segreto della vita (applicata ad una chitarra frankenstein, ma tant’è!), di essere entrati in un loop di infinite rivelazioni filosofiche e scientifiche, e invece no. La verità è lontana, e non la raggiungeremo di certo in questo viaggio, ormai giunto al termine. Una cosa è certa: ci siamo divertiti un multiverso!
“It Works!” è un disco strumentale sopraffino, geniale, sorprendente. Curato in maniera maniacale e con grande professionalità, dall’artwork alla (auto)produzione: un esperimento sopra le righe che si attesta abbondantemente oltre il livello medio dei dischi della sua categoria. Un album alla portata di tutti, che si concede a funambolismi solo quando necessario e resta fortemente ancorato a delle suggestioni melodiche intrecciate ad una narrazione paradossale. Anche se da un lato dobbiamo ammettere che la sperimentazione del Brigo, scienziato pazzo per 38 minuti, palesa le lezioni dei grandi maestri dello shred (Satriani, Vai e Zappa su tutti), va d’altro canto ammesso che la bizzarra contaminazione di questi elementi annidati nel continuum nonsense di “It Works!”, capace di strizzare l’occhio al multiverso culturale ed immaginifico dell’autore, è un elemento tipicamente contemporaneo ed originale. In “It Works!” c’è tutto quello che vorremmo trovare in ogni disco: passione, professionalità, personalità, tecnica e tanto divertimento nel suonare, che si traduce immancabilmente nel divertimento e nel coinvolgimento emotivo di chi ascolta.
La macchina del tempo è pronta; anche se non capiamo esattamente a cosa servano tutte quelle maledette lucine colorate intermittenti, il manuale di istruzioni dice che basta premere il tasto play. Surfando tra paradossi e dimensioni parallele, è stato un piacere finire in quell’antro oscuro fatto di cavi elettrici e formule sulla lavagna, nel laboratorio di Matteo Brigo, tra chitarre redivive, scariche elettriche e simpatici ortaggi. Esperimento riuscito.
Luca “Montsteen” Montini