Recensione: It’s Not The End

Di Fabio Vellata - 2 Giugno 2013 - 1:02
It’s Not The End
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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67

E allora vediamo un po’.

Chitarre aspre e fangose, mai impegnate in divagazioni o sprazzi atipici, al di la di qualche immancabile assolo.
Voce grossolana, sgraziata e gutturale. Tempi prevalentemente “medi” ed accelerazioni mai improvvise.
Produzione volutamente “live”, dai suoni che molto sanno di presa diretta senza alcun tipo di sovraincisione o effetto particolare.
In altre parole, un fottutissimo disco di grezzo hard n’roll da “sagra biker”, proprio di quelli che staccano il cervello (nel senso che lo “spengono”) ed infischiandosene di qualsiasi pensiero legato ad originalità, trovate di classe o finezze assortite, badano al sodo, preoccupandosi di alzare un buon muro di Watt, sgranocchiare qualche linea melodica facile con la quale macinare chilometri e soprattutto, scapocciare un bel po’.

Il moniker, Badmotorfinger, ricorda da vicino un perduto capolavoro dell’era pre-grunge, inciso nel 1991 dagli allora “astri nascenti” Soundgarden. Nulla a che vedere tuttavia, per sound, impostazione vocale ed impronte stilistiche.
Ad essere onesti, in effetti, qualcosa di settantiano sarebbe pure reperibile all’interno del songwriting in forza al gruppo tricolore, nelle forme di un riffing che – di quando in quando – indugia sporadicamente in qualche “ribassamento” blacksabbathiano, oppure, in approcci che simulano l’attitudine del glabro rock punk targato seventies.
Ma sono semplici sfumature: il grosso del lavoro è tutto incentrato su di un heavy grezzo e potente, talora ai limiti del thrash, più spesso infarcito di ignorante (in senso buono) rock n’roll che troneggia incontrastato lungo i tredici episodi proposti in scaletta.

Nulla che possa piacere a fini dicitori insomma, e poco che riservi motivi d’interesse per i cultori del feeling ricercato ed elegante.
“It’s Not The End”, album d’esordio del quintetto bolognese, promette piuttosto un menu infarcito di energia e suoni pesanti, per un’esperienza che non dice assolutamente alcunché di nuovo ma ha dalla sua un’evidente genuinità di fondo unita all’essenza tipica di un sound che tanto si trova a proprio agio in una dimensione come quella live.

Il limite principale di una proposta che scorre entro linee ormai iperconsolidate è, come facilmente intuibile, la totale assenza di fantasia, a partire dai titoli dei brani (“Ride The Storm”, “Rebel”, “Loser” e “Rock n’Roll” sanno, nemmeno a ripeterlo troppo, di anthem “on the road” da fiera del radiatore), per finire alla pura e semplice elaborazione dei contenuti musicali, stretti in un modo di scrivere musica che non ammette particolari differenze rispetto a quanto già ascoltato innumerevoli volte da una grande quantità di band differenti.

I cinque musicisti mostrano in ogni modo di saper tenere in mano gli strumenti, evidenziando una vena ispirata per ciò che concerne invece il profilo testuale delle canzoni, molto meno banale e stereotipato di quanto possano lasciar intendere le coordinate stilistiche della musica in sè.
“Afterlife”, pezzo incentrato sullo spinoso tema del voler credere in qualcosa di ultraterreno e post mortem, “Nightmares”, disquisizione sulle paure inconsce, e “Ride The Storm”, sorta di omaggio al grande genio di Nikola Tesla, sono a dimostrarlo.

I Badmotorfinger che preferiamo tuttavia, sono quelli della conclusiva “Rock N’Roll”.
Il titolo non necessita di particolari commenti: un bel treno impazzito che corre sferragliando sui binari, lanciato in piena velocità sulle note di un ruvido e sgommante inno rock, spigoloso ed urlato senza alcun ritegno. Del resto, che anche i Motorhead fossero – almeno un po’ – tra le influenze della band felsinea, pareva molto più di una semplice impressione sin dall’inizio…

Insomma, di particolari novità, zero anche stavolta.
Molta vigoria, chitarre in primo piano ed un canovaccio che non riserva sorprese di alcun tipo: per emergere concretamente dalla massa, forse un po’ poco.
Più che sufficiente ad ogni buon conto, per dire di “esserci”, meritandosi almeno un sentito plauso da parte dei fan accaniti dell’heavy rock più semplice e privo di artifici.

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