Recensione: IV
Nella storia dell’heavy metal alcuni cantanti, veri e propri “mostri sacri”, hanno saputo nobilitare ciascun album su cui hanno impresso la propria voce, sia con le band “principali”, sia in progetti solisti o paralleli… Ronnie James Dio, Rob Halford, Bruce Dickinson, Geoff Tate e pochi altri. Nelle generazioni successive, sebbene non manchino esempi ispirati e di qualità, è più difficile trovare singer capaci di elevare con altrettanta efficacia ogni platter a cui hanno partecipato, soprattutto se in contesti differenti tra loro.
È impresa ardua raccogliere il testimone di quelle grandi voci, ma in alcuni casi la personalità ha saputo esprimersi al meglio anche in tempi più recenti. Pensiamo a Tim “Ripper” Owens, oppure al compianto André Matos, ma anche alla “meteora” Wade Black o a frontman in rapida ascesa come Todd La Torre.
In pochi si ricorderebbero di inserire in questo ristretto circolo il nome di Tim Aymar, uno dei cantanti più trascurati delle ultime decadi. Eppure non può essere un caso che Chuck Schuldiner gli avesse affidato il microfono dei Control Denied… ancora oggi, oltre al grande dolore per la perdita di un uomo e musicista di enorme profondità, rimane il rimpianto per la carriera spezzata di quel progetto, il cui bellissimo The Fragile Art of Existence resta il primo e ultimo passo.
Anche il percorso di Aymar sarebbe potuto essere diverso. Dopo la scomparsa di Schuldiner, lo abbiamo ritrovato negli ottimi Pharaoh e in altri progetti underground dalle alterne fortune.
Per chi conosce la qualità del singer di Pittsburgh è stata una gradita sorpresa il suo recente ingresso negli Angband per il nuovo IV, uscito come i precedenti tre album per Pure Underground/Pure Steel Records. La scelta di Mahyar Dean, chitarrista e leader della band iraniana, nonché autore di un libro sui Death, non poteva essere migliore.
Gli Angband sono devoti a un metal dalla chiara impronta tradizionale, con una forte ascendenza NWOBHM (e un certo amore per i Maiden), che pare trovare ispirazione esclusivamente nelle sonorità del magico lustro 1980-1985, impreziosito da atmosfere derivanti dall’antica tradizione persiana.
IV è un disco affascinante nelle sue imperfezioni, appartenente a un tempo passato, da ascoltare in penombra col sottofondo del fruscio del vinile. La struttura sonora è “minimale”, come se la parte strumentale volesse scomparire per lasciare tutta la scena alla voce, splendida, di Aymar. Il songwriting, a tratti naif, si pone fuori dalla contemporaneità, eppure è perfetto per sorreggere la prova sofferta e dolente di Aymar, la cui capacità interpretativa è superlativa.
Fighters ha un riff tradizionale e fraseggi canonici, ma riesce a imprimersi grazie alle linee vocali graffianti e aggressive, con un refrain che richiama gli Iced Earth più epici. Aymar prende subito la scena, per un brano molto “cantato”, in cui trovano spazio assoli coerenti con l’atmosfera evocata.
Visions in My Head e Atena sono canzoni “gemelle”, muovendosi in un terreno di confine tra pezzi elettrici e semi-ballad, con lenti arpeggi che si innestano sulle strofe creando momenti di oscurità e squarci di pathos. Le melodie dominanti si svolgono in un continuo rimando tra chitarra e voce, che a tratti sale di tono per poi tornare a sporcarsi, dominando la scena con personalità e forza.
Sprazzi di luce sono presenti in Mirage, dove i solismi di Mahyar Dean fanno nuovamente da contraltare alla prestazione anthemica di Aymar. Le linee vocali pulite di Nights of Tehran vanno a irrobustirsi con l’andamento del brano, mentre Insane mostra una struttura coesa, con riff notturni su cui il frontman statunitense gioca le sue carte più emotive.
Ritmiche non lineari sono presenti in Cyrus the Great, che evidenzia influenze della musica folcloristica persiana. Prima del malinconico strumentale The Blind Watchmaker troviamo Children of War, forse l’unico pezzo fuori fuoco del lotto, su cui anche le scelte vocali appaiono perdere la strada principale.
In IV la velocità non ha spazio, il suono sembra non voler graffiare, ma crea uno sfondo con il quale entrare lentamente in empatia. Il modo migliore per ascoltare l’album è considerarlo come un unico lungo brano suddiviso in vari movimenti, il cui impianto potrebbe facilmente crollare senza Aymar.
Al netto di linee di basso deboli e di una sezione ritmica dimessa (un bassista di ruolo e un secondo chitarrista donerebbero sicuramente maggior spessore alla formazione iraniana), il disco degli Angband trova il suo fascino nell’esser suonato quasi in presa diretta, rivolgendosi a una nicchia tra gli amanti di sonorità perdute nel tempo.