Recensione: IV: Sacrament
Dio mio, come passa il tempo! Sono già passati tre anni dall’uscita di quella bombetta di “III: Pentecost”, album che a suo tempo mi aveva folgorato e di cui questo “IV: Sacrament” è in tutti i sensi il diretto successore. Il nuovo album dei britannici Wytch Hazel, infatti, prosegue il discorso musicale esattamente come l’aveva interrotto: presentando un hard & heavy decisamente tradizionale, sporcato appena di folk e dallo splendido profumo rétro che riporta subito alla mente gente come Angel Witch, Wishbone Ash e Thin Lizzy rivisti in chiave moderna. Chitarre vibranti e sinuose si innestano su ritmi pulsanti per tessere le melodie immediate, trionfali e dal retrogusto sacrale che costituiscono il nucleo principale della “ricetta Wytch Hazel”. Durante i tre quarti d’ora di “IV: Sacrament” il quartetto cesella brani semplici e brillanti, tenendo sempre al centro della scena il proprio messaggio spirituale. Come da programma, quando si parla di Wytch Hazel, la qualità dei pezzi si mantiene piuttosto alta per tutto l’album, con un mix di verve e forti vibrazioni hippie che ben si amalgamano a un substrato musicale più corposo, ma stavolta sembra che i nostri rinuncino volontariamente ad affondare il colpo. Mi è sembrato, infatti, che i Wytch Hazel giocassero sul sicuro prediligendo, anche nei momenti più spinti, un fare conservativo, quasi dimesso, scegliendo una struttura dei pezzi forse troppo uniforme, che smorza la varietà in scaletta in favore di un’omogeneità di fondo pensata, forse, in vista della riproposizione dal vivo. Ciò intride i brani di “IV: Sacrament” di una solennità malinconica e crepuscolare, che per quanto affascinante diluisce lievemente la carica del lavoro in favore di un’atmosfera più soffusa, finendo per perdere la sfacciataggine dimostrata in certi brani del recente passato. Nonostante questo mio appunto personale (peraltro a quella che potrebbe comunque dimostrarsi una scelta vincente sulla lunga distanza), non si può assolutamente negare al gruppo il merito d’aver realizzato un altro lavoro di gran classe, passionale e dalla qualità media di tutto rispetto.
Si parte trionfanti con “The Fire’s Control”, pezzo scandito e solare che sembra uscito dal precedente lavoro del quartetto britannico. Il brano gioca con toni bassi ed improvvise fiammate più luminose, predisponendo subito l’ascoltatore a ciò che seguirà grazie al suo incedere raggiante. “Angel of Light” mantiene alto il tasso di coinvolgimento grazie al suo fare anthemico e all’uso di melodie immediatamente assimilabili, che si stemperano nella sezione più solenne che apre l’ultimo terzo del pezzo. “Time and Doubt” prosegue con la dispensazione di una carica anthemica solare ma al tempo stesso venata di una nota dolente, incerta, spezzata dal breve assolo più determinato, e sfuma nella successiva “Strong Heart”. Qui, complice anche un riff di apertura tanto tradizionale quanto cafoncello, si percepisce una maggiore determinazione da parte del gruppo, che trova il suo punto luce nell’assolo dall’ottimo feeling. Con “Deliver Us” i nostri tornano ad una solennità mesta screziandola, però, di passaggi più concentrati, mentre “A Thousand Years” torna ad alzare i giri del motore dispensando una bella dose di carica trionfale. “Gold Light” è una breve strumentale dal retrogusto mistico e antico che apre la strada a “Endless Battle”, pezzo solenne durante il quale i nostri tornano a giocare con consistenze diverse, saltellando da passaggi distesi ad ispessimenti più battaglieri e condendo il tutto con qualche spruzzatina dal retrogusto esotico. Con l’accoppiata finale i nostri mettono in mostra il loro lato più folk: “Future is Gold” si distende su un arpeggio rilassato e vagamente bucolico che diffonde tutt’intorno a sé il suo profumo crepuscolare, mentre “Digging Deeper” irrobustisce il profumo malinconico e sacrale del pezzo precedente con una resa più determinata. La breve pausa centrale apre ad una sezione strumentale da vecchia scuola, prima del cambio d’atmosfera che sfuma nel finale a dissolvenza.
“IV: Sacrament” conferma, qualora ce ne fosse bisogno, l’ottima forma dei Wytch Hazel, e ci consegna un album concentrato e assolutamente godibile che, seppur meno esplosivo e più uniforme del suo immediato predecessore, dimostra come il quartetto britannico abbia ancora cose da dire. Bentornati.