Recensione: Janas
Inusuale combo questi Hieros Gamos, il cui chitarrista/bassista/cantante Roberto Moro proviene dalla Sardegna e il secondo chitarrista/bassista Amine Labiade niente meno che dal Marocco. Inusuale più che altro in quanto il genere trattato è stato molto raramente manipolato o apprezzato dagli africani, eppure in questo caso è avvenuto e non posso fare a meno di congratularmi in prima istanza con la band perché hanno immediatamente dato una bella lezione agli intransigenti che ritengono il black unicamente scandinavo: questo disco trabocca gelo come un antico poema ulveriano o mayhemiano, ed è sempre un piacere tornare negli abissi della metà degli anni ’90, per mano di chicchessia non ha importanza.
La biografia della band ci informa che Hieros e Gamos sono due parole di origine greca che significano “matrimonio sacro”; una specie di rituale pagano con il quale, mediante la sessualità e la congiunzione tra maschile e femminile si arriva a toccare la più alta e profonda spiritualità.
Purtroppo la band ha avuto enormi problemi a trovare musicisti motivati – in particolare batteristi, e ha sofferto molto in termini di line-up. Questo giustifica in parte una drum machine a volte davvero esasperante, che ha avuto luogo solamente dopo due anni di ricerche di membri attivi.
Il black proposto è quello più classico di stampo norvegese: chitarre che sembrano uscite da un silos di vespe, produzione casalinga disturbata e di scarsa qualità e screaming agghiacciante le cui parole non sembrano esattamente provenire dalla gola ma dallo stomaco, in un rigurgito continuo di strofe la cui intelligibilità è molto vicina allo zero.
Aspettatevi quindi un prodotto alla Deathcrush, alla primi Immortal e alla Ulver di Nattens Madrigal per quanto riguarda la produzione, e alla Bergtatt per quanto riguarda una sorta di varietà scaturita dal felice uso della chitarra classica che spezza canzoni monolitiche come “Destination Death“, interrotta da un lungo assolo che esplode nuovamente nel caos delle chitarre-zanzara, un crescendo emotivo che ricorda molto il terzo capitolo di Bergtatt.
L’originalità – a parte le note orientaleggianti delle ultime due tracce probabilmente retaggio di Amine Labiad – non è certo di casa in questo Janas, ma la passione c’è davvero tutta: il nuraghe in copertina non tradisce la provenienza della band, così come la quarta traccia il cui titolo (Abyss) è scritto in arabo. Tutti gli spunti di quest’album sanno di già sentito e a volte lasciano l’amaro in bocca: è vero che i mezzi erano molto limitati, ma il disturbo continuo della registrazione nel 2005 può essere ripulito abbastanza facilmente, anche se fa molto black senza compromessi. Credo che l’orientamento ideologico di questa band potrebbe creare un filone parallelo al solito ‘foreste-freddo-satana’ del primo black, quindi anche una produzione migliore non lo distoglierebbe dalla sua relativa canonicità, da sempre fonte di orgoglio per le band underground di questo tipo.
Devo purtroppo redarre una nota negativa proprio sulla batteria, che specialmente nel finale di “November” diventa quasi inascoltabile per via del martellare continuo di toni bassi che lacera l’udito.
Un prodotto sicuramente interessante, poco movimentato, con molto pensiero alle spalle: Gli Hieros Gamos ci hanno dimostrato di sapere cos’è il black metal, ora attendiamo con impazienza che la musica segua quell’impronta personale stabilita dai testi e dal concept. E l’attesa sembra durare poco, visto che un secondo prodotto è ormai alle porte.
TRACKLIST:
1) Destination Death
2) November
3) Folkemoonsad
4) Abyss