Recensione: Jesus Christ The Exorcist
“Nessuno ha un amore più grande di questo:
consegnare lo spirito per i propri amici.“
(Vangelo Secondo Giovanni 15, 13)
A volte mi chiedo cosa penseranno, e cosa penseremo, di Neal Morse e della sua mastodontica discografia di qui a vent’anni. Forse verrà definito uno degli eredi legittimi di Peter Gabriel, forse di lui si ricorderanno solo i progster più fedeli, i quali comunque faticheranno ad approcciare la sua discografia oceanica. Di sicuro è riduttivo ormai ricondurre il migliore Morse agli Spock’s Beard e ai capolavori della sua ex-band come V e Snow. La sua carriera solista, infatti, è iniziata con un’impronta marcatamente cristiana e da qualche anno Neal, pur continuando a percorrere temi biblici, sta cercando di lanciare nuovi talenti all’interno della sua band evitando manie di protagonismo ormai fuori luogo. Prendendo una pausa dalla concept in più capitoli basato su The Pilgrim’s Progress, questa volta il mastermind losangelino decide di tornare su alcune canzoni abbozzate una decina di anni fa e poi riscritte nel 2018 durante la fase di preparazione del Morsefest. Considerata la sua preparazione e l’esperienza maturata in decenni creativi, quello che abbiamo tra le mani è un musical caldo e commovente, che spicca tra le ultime uscite in casa Morse e godrà di buona longevità come One e Sola Scriptura. Lo stesso singer song-writer tenta di descrivere Jesus Christ The Exorcist con queste parole: “There are touching ballads, rousing ensemble pieces, classical elements, and dramatic Broadway musical type songs, as well. It is really meant to be listened and experienced all the way through as you would a play or an opera” (Ci sono ballate toccanti, commoventi pezzi d’insieme, elementi di musica classica e, naturalmente, canzoni vicine al tipico musical drammatico di Broadway. Il disco è concepito per essere ascoltato e vissuto tutto d’un fiato come se foste a teatro e all’opera).
La storia è la più nota di sempre, strada già percorsa da giganti della letteratura come Ernest Renan, François Mauriac e compositori quali Andrew Lloyd Webber (con Tim Rice nel 1970, proprio a Broadway), senza contare il ruolo della vita di Cristo nella musica d’arte. Quello che stupisce – e Morse ne è consapevole – è l’approccio sonoro riservato al platter (vedasi copertina minimale): non il solito e prevedibile ecletticismo del nostro intrattenitore prog. preferito; Neal questa volta, vista la caratura della trama in oggetto, preferisce lavorare di sottrazione e non eccedere in virtuosismi. Anche la sua presenza al microfono passa in seconda luce, per puntare alla valorizzazione di un cast di voci spesso sapientemente scelte per interpretare i ruoli richiesti (c’è anche il figlio Wil Morse in parti secondarie). Questa musica con meno pleonasmi e ridondanze concentra, qundi, il giusto risalto sui testi del vangelo 2.0, qui proposto con chiaro intento anticonformista. Del resto, quale genere migliore del prog. (poco commerciale e demodé nel mainstream) può tentare di ridare linfa a una vicenda di duemila anni fa, ma che continua a parlare a chi non ha un cuore indurito? Il titolo Jesus Christ The Exorcist, infine, può spiazzare di primo acchito, ma è la dicitura più calzante, visto che il concept si sofferma sui momenti di tentazione e di confronto tra il nazareno e le forze del male. Tra peccati rimessi e indemoniati sanati, Neal Morse ha voluto insistere sul lato taumaturgico del Cristo e sulla gioia che ha saturato la sua vita terrena permettendogli di sconfiggere la morte.
E ora veniamo alla musica, fin qui solo accennata. Dopo un breve intro, l’Overture propone un magnifico Ted Leonard (già protagonista in un album dalle tematiche bibliche con gli Affector) che recita un toccante Pater, dimitte illis. Il resto del brano è strumentale con una bella coda di pianoforte e insistito di chitarra. L’inizio a metà dei fatti tenta in pochi secondi di inquadrare il cosiddetto mistero messianico che vede protagonista Gesù di Nazareth e la scelta di indulgere anche su toni intimisti sarà una delle scelte vincenti dell’album. “Getaway”, dopo un avvio con acceleratore premuto, continua il lungo crescendo che apre il primo disco del concept. Le voci dei personaggi iniziano a dialogare avendo sempre come punto di riferimento la melodia più autentica. Tutto è pensato per creare un’atmosfera ariosa e dall’afflato luminoso, aspetto che tocca il cuore e le orecchie dell’ascoltatore. In questo senso anche il drumwork lontano dai virtuosismi di Portnoy è azzeccato e dentro al contesto (ma c’è uno strumento che Eric Gillette non sappia suonare?!). Al quarto posto in elenco, “Gather the People” è uno degli highlight di Jesus Christ The Exorcist, merito di un ritornello reso memorabile dalla voce iconica di Matt Smith. La scelta del cantante dei Theocracy per vestire le parti di Giovanni Battista è stata la vera trovata geniale di Neal Morse, non si poteva optare per vocalist migliore. Il pezzo, infatti, ha un incedere innico e starebbe bene come epilogo del disco, così come la successiva “Jesus’ Baptism” (l’immersione nell’acqua battesimale non è forse prefigurazione della morte da cui rinascere?) tuttavia va ricordato che siamo alle prese con un musical e non mancano momenti di questo tipo lungo i 110 minuti di durata complessiva. Il primo vero e brusco stacco nel fluire delle atmosfere è la seguente “Jesus’ Temptation”, dieci minuti progressive che condensano la lotta interiore con il tentatore (raccontata in Mt 4,1-11, Mc 1,12-13 e Lc 4,1-13). Le tematiche affrontate sono di eterna attualità, per questo il brano è piuttosto articolato e con un Rick Florian (White Heart) sopra le righe nelle vesti di Satana. Il contrasto con l’ugola d’oro di Leonard è di sicuro effetto, però forse si poteva pensare a un altro vocalist per la parte del divisore; Florian graffia, infatti, ma non convince appieno. In definitiva “Jesus’ Temptation” è la composizione più ambiziosa del lotto ma non merita la palma di capolavoro. Il buon Neal, tuttavia, sa vivere di mille qualità, così bastano poche note in tapping e un ritornello catchy per valorizzare la voce degli attuali Spock’s Beard in “There’s a Highway”. Che dire, poi, della sana dose di rock old-school, che senza soluzione di continuità lascia posto al blues più scolastico (non per questo disprezzabile) di “The Woman of Seven Devils”? Qui troviamo la semi-sconosciuta Talon David (cantante di Nashville) nei panni di Maria Maddalena, liberata da Gesù dai famosi sette demoni (e non mera prostituta come vuole la costruzione a posteriori). Da riascoltare il finale con un buon assolo della 6-corde. Da pelle d’oca anche “Free At Last”, pezzo che va a comporre un dittico di brani con voce femminile dal sicuro impatto.
“The Madman of the Gadarenes” tratta, invece, dell’episodio (forse poco noto ai più) dell’indemoniato/pazzo di Gadara, posseduto dallo spirito maligno chiamato Legione. La scena è teatrale già nei vangeli: Gesù scaccia il demone, poi lo spedisce in un branco di maiali, i quali infine cadono da una rupe suicidandosi. Per cercare d’interpretare questo racconto, che merita una veloce analisi, ne va ricordata l’ambientazione nella Decapoli (allora territorio pagano): l’indemoniato fuor di metafora può rappresentare l’uomo oppresso, la mandria suina la ricchezza di chi opprime e i porci i valori della società dei gentili. Il branco di animali indica pertanto una situazione di sfruttamento da parte di persone senza scrupoli e il loro annientamento il ritorno a una situazione di equità. Il brano resterà impresso anche per una sua particolarità. Il prog. e la pazzia vanno a braccetto – è risaputo – «perché non sfruttare l’occasione e inserire una parte a cappella» avrà detto Neal? E così a metà brano ritroviamo il famoso cliché introdotto dai Gentle Giant ormai 40 anni fa e riproposto sempre in modo impeccabile da Morse (e forse arrivata alla sua perfezione con “Author of Confusion” nel 2004). Un altro centro in tracklist, insomma, e si prosegue senza cali qualitativi, ascoltare per credere. “Love Has Called My Name” è commovente ed evoca una nostalgia prepotente, spunta la voce riconoscibilissima di Nick D’Virgilio (nei panni di Giuda) e tutto riporta ai tempi dorati di Snow degli Spock’s Beard. In Jesus Christ The Exorcist, va detto, sono radunate le varie anime del gruppo lanciato da Morse a metà anni Novanta: una sorta di riconciliazione simbolica o un omaggio dovuto alle barbe? Tornando alla tracklist, gli ultimi otto minuti del primo platter si dividono in tre brani. Segnaliamo “Get Behind Me Satan”, pezzo quadrato e potenziale singolo da visibilio, con unisoni succosi (Randy George è un signor battista, non smetterò mai di ribadirlo).
Il secondo disco è più conciso e in 45 minuti riassume gli episodi salienti delle ore oscure e critiche del Nazareno condotto al supplizio salvifico. “He Must Go to the Cross” è un secondo opener aspro e tirato, con voci a rendere l’odio rancoroso dei farisei che vogliono crocifisso il proprio connazionale eretico. Con perfetta ricerca d’antitesi complementare in “Jerusalem” sentiamo scandire invece gli Osanna! d’acclamazione da parte del popolo della città santa, anche se non possiamo parlare di una vera sezione gospel del concept. La figura di Giuda è dipinta nel suo rovello interiore nel lento “Hearts Full of Holes”: similmente a quanto fatto (in modo più magniloquente) dai Vanden Plas di The Seraphic Clockwork, emerge il ruolo combattuto e imprescindibile (Gv 17, 12) del figlio della perdizione, traditore che “teneva la cassa” (Gv 13, 29) e che non riuscì a far prevalere la logica dell’amore a quella del calcolo opportunistico, arrivando a vendere il proprio maestro per miseri 30 denari. Si arriva, dunque, al turning point dell’ultima cena. “The Last Supper” (gli ascoltatori più onnivori assoceranno il titolo al classico dei Virgin Steele) non è una song particolarmente ficcante, a differenza di “Gethsemane”, con il ritorno in pompa magna del diavolo tentatore. In questo caso Satana si ripresenta incarnando il subdolo principio di autodistruzione che vorrebbe Cristo infedele al proprio compito ultimo. Nel finale vi è il riscatto di Leonard/Gesù con un crescendo trascinante e scale vertiginose. (Qui un recente approfondimento sull’episodio biblico). All’avvio di “Jesus Before the Council and Peter’s Denial” ci sarebbe stata a pennello l’ugola teatrale di Eric Clayton, visto il cast delle voci in gioco, troviamo invece Jake Livgren (Protokaw) nei panni di Pietro, pietra di scarto che diventerà pietra angolare della Chiesa, ma che per il momento rinnega il proprio maestro per attaccamento troppo umano alla vita. È interessante notare come le vicende degli apostoli s’intreccino tra loro e siano attuali nella misura in cui riconducono a comportamenti e debolezze che condividiamo ancora oggi. Tornando al caso dell’Iscariota, dopo il tradimento (che gli costerà il trattamento più privilegiato nella Commedia dantesca) è la volta di un suicidio sommario e desolante. Poteva anche non figurare in scaletta, invece Morse decide di includere la breve “Judas’ Death”, con un D’Virgilio mai tanto mesto. Nell’ultimo quarto d’ora tutto si compie, partendo dagli otto minuti di “Jesus Before Pilate and the Crucifixion”. L’avvio è quasi circense (che la messa in scena del potere umano, in fondo, sia sempre farsesca?). Neal Morse è un ottimo Pilato, la mini-suite procede sorniona per quasi metà minutaggio (anche il coro del Crucifige! è alquanto blando, scelta opinabile), poi il maestoso main-theme interpretato dalla 6-corde rompe gli indugi e ci accompagna lungo un assolo dal pathos inequivocabile, con la chiusura dell’inizio in medias res che ha dato avvio al concept. Dopo l’elegia “Mary at the Tomb”, la risurrezione del Messia è come un incontro a lungo atteso tra due innamorati, in lento crescendo e con toni intimi. “The Greatest Love of All” riesce a rendere la grandiosità del miracolo per antonomasia (come può la fisica sposarsi alla morale?) con l’intreccio vocale tra Talon David e Ted Leonard. Non serve molto altro a Morse, l’effetto catartico funziona alla grande senza orpelli aggiuntivi e l’impostazione armonica è perfettamente calzante. Il full-length si conclude con “Love Has Called My Name (Reprise)”, il suo sapore nivale e le varie voci coinvolte a ritagliarsi qualche secondo a mo’ di titoli di coda. Niente trionfalismi eccedenti, dunque, nessun finale pirotecnico con sfoggio di tecnica: il concept si chiude senza outro strumentale, ma con un richiamo al suo leitmotiv di fondo, la condivisione del messaggio d’amore contenuto nella buona novella.
Ascoltato il doppio album nasce spontaneo dire grazie a Neal Morse e a Frontiers Records per questo regalo. Non era dovuta ai fan un’opera così poetica e di spessore al contempo, e non è da tutti riuscire a concepirla alla soglia dei sessant’anni anagrafici. Di sicuro una delle uscite più apprezzabili del 2019 insieme all’ultimo Flowers At The Scene di Tim Bowness e Grand Tour dei Big Big Train. Speriamo venga prima o poi messa in scena dal vivo, intanto la consigliamo ai presenti e ai futuri appassionati del genere. Jesus Christ The Exorcist è un album che resterà ben visibile all’interno della discografia del compositore losangelino e che gli ha permesso di non ripetere se stesso pedissequamente proponendo l’ennesimo discreto album, ma troppo uguale a quelli precedenti. Come coniugare valentia musicale e voglia di reinventarsi ancora una volta, bravo Neal.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)