Recensione: Jewel of the Vile
Io amo le citazioni cinematografiche, quindi quando ho dato uno sguardo fugace alla copertina di questo “Jewel of the Vile” qualcosa nel mio sistema nervoso si è mosso e ho capito che dovevo saperne di più. La mia curiosità derivava dal duplice gioco di parole insito nel titolo dell’album e nel nome del gruppo, che si rifanno a due film della metà degli anni ’80 che io da giovane adoravo.
Ma torniamo a noi: i Necromancing the Stone sono un gruppo heavy metal formato dai membri di Arsis, Absence, Black Dahlia Murder e Brimstone Coven giunto al, diciamo così, esordio discografico dopo l’EP “Before the Devil Knows You’re Dead” del 2014. La loro proposta è costituita da uno strano mix di influenze e generi diversi, passando da sfuriate thrash ad improvvisi salti negli anni settanta ma mantenendo comunque una solida base heavy e condendo il tutto con la voce pulita di “Big” John Williams che, dopo un primo momento di spaesamento, mi ha convinto sempre più con l’andare degli ascolti.
Si inizia subito pestando il giusto con “Crusher”, brano adrenalinico egregiamente sostenuto da una sezione ritmica che si preannuncia poderosa e dalla coppia di chitarre che, grazie ad una certa disinvoltura con cui passano da un genere all’altro anche entro la stessa traccia, si riveleranno l’arma in più dell’album. La canzone alterna momenti più tipicamente thrash ad altri più rilassati ma non per questo meno pesanti, mentre la voce di Big John aleggia sul resto del gruppo. Il finale più scandito permette di indulgere in una certa solennità prima di lanciarsi nella successiva “Bleed for the Night”: qui i nostri aggiungono alla propria ricetta alcuni fraseggi più hard rock, insinuandoli tra un riff e l’altro per mescolare un po’ le carte. Il rallentamento centrale smorza i ritmi, avvolgendo l’assolo prima della ripartenza a briglia sciolta in tempo per il finale. “The Descent”, invece, sembra volersi dedicare a un andamento più saltellante, inframezzando passaggi scanditi a brevissime sfuriate e, ancora, a fluttuanti squarci melodici. Un basso ragliante ci introduce la prima bombetta dell’album, “The Siren’s Call”, che dopo il solito inizio funambolico decide di mantenere ritmi generalmente più sostenuti rispetto alla traccia che l’ha preceduta. In realtà anche in questo caso il gruppo giocherella con velocità diverse per non farsi mancare niente, passando da ritmiche furenti a fraseggi più classici e donando a tutta la composizione un respiro trionfale che contribuisce a dar vita a una cavalcata, sì eterogenea, ma per nulla dispersiva.
“Ritualistic Demise” torna a tempi scanditi calcando la mano su una certa sulfurea inesorabilità nella proposta, sebbene si avverta nel gioco di melodie dei nostri una trionfale solennità affiorare tra un riff e l’altro; procedendo con l’ascolto, questa solennità prende piede fino a rompere gli argini nell’ottima “The Old One”, in cui la lezione degli anni settanta viene proiettata nel nuovo millennio con una traccia melodica ed equilibrata, dai riff fangosi e le armonie acide intervallati da rapide e asettiche rasoiate. Ascoltatela e poi mi direte. “Rotten Reunion”, per contro, rallenta di nuovo per puntare tutto su un’atmosfera malsana permeata di epica malignità, esasperata dagli inserti di growl. Il suono si inspessisce nella seconda parte della traccia, in cui la solennità torna a farla da padrona grazie al lavoro puntuale della coppia di chitarre. Neanche il tempo di apprezzare la conclusione del brano che si viene subito catapultati nella furente “Unfinished Business”, in cui il basso torna ad esigere attenzione e guida la carica per un pezzo, stavolta, più smaccatamente thrash. Ottimo come sempre il lavoro delle chitarre, ma è tutto il gruppo qui a mettersi in mostra per creare un pezzo avvincente e corposo. Il breve momento di calma serve solo a prendere la rincorsa in vista di una nuova sfuriata nel finale e concludere, così, uno dei picchi dell’album. “Honor thy Prophet” gioca, in un primo momento, la carta dei repentini cambi di tempo e di atmosfera, per poi assestarsi su un tono più solenne mentre la voce acquisisce una nota più declamatoria, sorretta da fraseggi di chitarra ora dilatati e sognanti, ora più maligni e aggressivi. Interessante anche la sezione strumentale che conclude il brano e apre le porte a “From Graves to Infamy”, altra bordata in cui i nostri mescolano abilmente thrash ed epicità per un’altra canzone sopra la media. I riff passano con apparente noncuranza dalla frenesia alla solennità, caricandosi sempre più mentre ci si addentra nella seconda parte dalla traccia, in cui la componente più epica viene sostituita da una buona dose di rabbia. Notevole il lavoro della sezione ritmica, che si mantiene rombante per tutta la durata della canzone. Chiude l’album “The Battle of Morningstar”, traccia all’insegna del metallo più classico e caciarone in cui la voce di Big John volteggia su un tappeto fatto di riff abrasivi e passaggi più scanditi e minacciosi in cui, ogni tanto, fa capolino qualche fraseggio più iconicamente hard rock (si veda ad esempio il finale).
Tirando le somme devo dire che fa piacere, nel mare magno di album che suonano tutti uguali, ascoltare ogni tanto qualcosa dotata di una bella personalità come questo “Jewel of the Vile”, soprattutto quando tutto è condito da una buona dose di auto/ironia e serve a sostenere una proposta di qualità come, appunto, quella dei Necromancing the Stone. Sia chiaro, non ci troviamo dinnanzi a una pietra miliare, ma nonostante qualche traccia non perfettamente riuscita che abbassa il valore generale dell’album mi sento di dire che questi signori raggiungono lo scopo prefissato e confezionano un ottimo album, variegato e corposo, meritevole di ripetuti ascolti.
P.S.: per chi se lo fosse chiesto e/o non ci fosse già arrivato per conto suo, i due film di cui parlavo all’inizio della recensione sono “Alla Ricerca della pietra Verde” e “Il Gioiello del Nilo”, traduzione italiana degli originali “Romancing the Stone” e “Jewel of the Nile” ed interpretati dal trio Michael Douglas, Kathleen Turner e Danny de Vito.