Recensione: Jotenheim

Di CirithUngol - 30 Giugno 2005 - 0:00
Jotenheim
Band: Jotenheim
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Genere:
Anno: 2005
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80

Jotenheim, ovvero, la terra dei giganti, questo luogo perennemente innevato secondo le tradizioni nordiche ha ora nuove coordinate geografiche, uno sconvolgimento tellurico ha spostato l’enorme mole di roccia dall’imprecisa vecchia mappatura alla più piccola e circoscritta regione italiana chiamata Marche. Il frutto di tale cataclisma ha gettato le basi per la nascita di un nuovo manipolo di eroi, fieri portavoce dell’antico suono che regnava in quelle antiche terre innevate.

Secondo la nuova datazione il nucleo principale si forma intorno al 2002 per volere di Matteo Isopi (voce), Arnaldo Rosati (basso) e Stefano Sanguigni (chitarra), a cui in seguito a vari cambi di line up si assestano con l’entrata del chitarrista Gianluca Silvi (già nei Battle Ram) e del batterista Peppe Bracchi.
Il genere proposto è inequivocabilmente legato alle sonorità classiche dell’epic made in U.S., forse eccessivamente datato sottolineerà qualcuno di voi, fresco e vincente nel rielaborare i luoghi comuni del genere ribadisco io. L’omonimo Ep d’esordio, pubblicato sotto l’ala protettrice della tedesca Metal Supremacy è l’ennesima testimonianza che il vero spirito dell’heavy metal è da ricercare nell’underground, dove attitudine e passione sono le uniche leve che fungono da trampolino di lancio per la creazione della musica che si ama.

L’impatto iniziale con l’opner Skullcrasher non lascia alcun dubbio sul genere proposto; puro ed incontaminato epic metal. Una canzone dall’inizio sostenuto che alterna all’interno della sua durata diverse sfumature strumentali evidenziate da una primordiale voce Lovecraftiana proveniente, forse, dalle lugubri e angoscianti Montagne della Follia, una voce cupa e roca ma allo stesso tempo dotata di un espressività toccante atta a raccontare in maniera unica e personale le antiche gesta narrate in quest’antico scrigno di metallo. Un incedere epico e solenne anticipa la sostenuta The Dog Of Ulster una song palesemente influenzata da Shelton e soci che all’altezza del ritornello ci regala una porzione di epic metal d’altri tempi come non se ne sentiva da anni, stupendo il rallentamento delle ritmiche sovrastate dalle barbare linee vocali di Matteo Isopi. Il lato B è aperto da un’altra piccola perla di arcaico epic metal, Excalibur and the King anche essa caratterizzata da diversi cambi di tempo, racchiude in una manciata di miniti la sintesi del perfetto manuale dell’epic.
La successiva Hyborian Dreams è il personale tributo acustico del chitarrista Silvi al genio Basil Poledouris che attraverso le sue composizioni ha reso immortali le gesta cinematografiche di Conan, eroe creato dal mai troppo lodato Howard. Si rimane in piena era Hyboriana con il tributo all’unica donna che l’ eroe Cimmero seppe amare anche al di fuori delle lenzuola, Belit, la regina della costa nera, omaggio tributato attraverso un splendida cover di The Queen of The Black Coast, perla dimenticata nell’ormai sconfinata discografia dei Manilla Road. Cover riuscitissima, abbastanza fedele all’originale se non fosse per una dose più massiccia di chitarre rispetto alla vecchia versione.

Solo tre song sono ancora poche per gridare al miracolo ma l’ascolto attento di questo esordio lascia presagire orizzonti di gloria per questo combo italiano.

P.S.: Per i maniaci del vinile segnalo che il disco in oggetto è stato omaggiato da una splendida versione in LP apribile limitato a sole 333 copie. Caratteristica principale di quest’oggetto è la magnifica colorazione del vinile, un rosso sangue macchiato di nero che in azione sembra ricreare un’indefinita sensazione magica, che sia il Globo dei Draghi bramato dalla sete di potere di Raistlin?

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