Recensione: Juggernaut: Alpha
«Aaaah, come suonano i Periphery!»
Forse parafrasare Maurizio Mosca buonanima potrebbe non sembrare, a prima vista, il modo migliore per aprire una review riguardante l’ultimo parto dei ragazzi del Maryland; tuttavia converrete che, vista la vastità dei territori esplorati dai Periphery e la complessità tipica delle loro composizioni, apprestarsi a discettarne non è compito dei più semplici.
Inoltre, come se non bastasse, Misha Mansoor e i suoi questa volta se ne sono addirittura usciti con un ambiziosissimo doppio album dal titolo “Juggernaut”, annunciato tre anni or sono e finalmente dato alle stampe dopo anni di gestazione. “Alpha” e “Omega” i titoli sulle elegantissime cover bianche: a testimoniare come i due dischi siano due facce della stessa medaglia: collegati ma non inscindibili, contrapposti ma non alieni.
“Alpha” è probabilmente il più accessibile (o forse sarebbe il caso di dire il meno ostico) dei due ma, pur con qualche differenza sostanziale nel dosaggio degli ingredienti, entrambi rappresentano una sorta di summa del Periphery-sound, dagli albori fino ad oggi. Spazio, dunque, alle sfuriate djent/mathcore che i nostri hanno nel sangue fin dai tempi dall’esordio e nemmeno poco, come a voler rimarcare l’assoluta eccezionalità di “Clear” – EP sperimentale nient’affatto male ma piuttosto mobido in termini di sonorità rispetto al passato – all’interno di una discografia che per ora non pare voler scendere troppo a compromessi. E poi tante tante melodie, di quelle che ti entrano in testa – e nel cuore – e non ti mollano più, incastonate come pietre preziose nell’elaboratissimo coté strumentale intessuto da tutti e cinque i musicisti.
“A Black Minute” incanta e seduce sin dai primi istanti, con la splendida voce di Spencer a librarsi con grande delicatezza su un accompagnamento strumentale dai toni freddi e sfumati, molto Devin Townsend-iani, verso il finale in crescendo. Quasi incredibile pensare che siano gli stessi musicisti, pochi secondi più tardi, a dare il via all’infernale “MK Ultra”: un metal meshugghiano scabro e annichilente come ai vecchi tempi, ravvivato da un cambio d’umore verso lidi swing assolutamente folle e inatteso. Puro genio.
Le armonie più orecchiabili, già collaudate nei frangenti più accessibili di “Periphery II – This Time It’s Personal” e di “Clear” tornano, poi, a farla da padrone nella scorrevolissima “Heavy Heart”: un gioiello melodico illuminato da un’altra linea vocale a dir poco straordinaria del solito Spencer Sotelo, e dall’efficacissimo contributo di chitarre, basso e batteria.
Rallenta il ritmo con “The Event”, un intermezzo di poco meno di due minuti, pensato per fare da apripista alla ritmatissima “The Scourge”, nella quale gli statunitensi arrivano a lambire territori cari al metalcore, pur senza mai dimenticare la loro attitudine progressiva. Di nuovo pochi istanti e torna a far capolino il lato più giocoso e sbarazzino dei Periphery: la title track è una scheggia di djent rockeggiante come quasi nemmeno la spettacolare “Scarlet”: veloce, trascinante, addirittura festaiola, nobilitata dalla miliardesima melodia ricercata eppur riiuscita. Stupefacente, esattamente come la capacità di Misha & Co. di cambiar pelle nel volgere di un batter di ciglia senza mai perder smalto.
“22 Faces” è più cupa e stratificata, con la voce di Spencer che risale l’aspra china riuscendo a ritagliarsi il proprio spazio al di sopra della fitta coltre di tempesta messa insieme, watt su watt, dalle chitarre di Mansoor, Bowen e Holcomb e dal basso di Adam Getgood, in attesa di un finale addirittura sontuoso. Segue “Rainbow Gravity” e, oltre alle ormai pluricitate acrobazie vocali di Spencer, il vero apice risiede nello spettacolare assolo di chitarra intorno ai due minuti e mezzo, un pezzo di assoluta bravura ed inventiva come raramente capita di sentire.
Siamo giunti quasi al termine eppure, dopo un tale turbinio di colori, umori ed emozioni, c’è ancora spazio per scapocciare un po’ sulle note della dura “Four Lights” e per concludere alla grandissima con la caotica ed inebriante “Psychosphere”.
“Alpha” è solo il primo dei due capitoli che compongono “Juggernaut” eppure riesce a configurarsi come opera compiuta e assolutamente fruibile anche in maniera a sé stante, forse un filino al di sotto del più compiuto “Periphery II – This Time It’s Personal”, ma di nuovo a livelli di assoluta eccellenza.
Sono in pochi, tra le nuove leve, a poter vantare una discografia così varia e di tale livello e il consiglio non può che essere di provare a dar loro una chance (se già non fanno parte del vostro personale pantheon musicale). E mi raccomando, non scoraggiatevi dopo pochi ascolti, il vero valore degli album dei Periphery, come avrete di certo capito e immaginato, viene fuori sulla lunga distanza.
Cheers!
Stefano Burini