Recensione: Jylhӓ
Un merito che dobbiamo riconoscere ai Korpiklaani è quello di essersi creati uno stile che li ha contraddistinti nel marasma di gruppi folk metal scandinavi. Se vi torna in mente quella volta alla sagra del cinghiale che avete bevuto vino casereccio e cantato ballate popolari abbracciati ai vostri amici per tutta la notte, probabilmente state ascoltando una delle loro canzoni. Divenuti famosi con inni alla spensieratezza alcolica come “Vodka” o “Beer Beer”, il loro segreto sta nell’aver vissuto un percorso stilistico inverso rispetto a molti altri colleghi della scena: inizialmente nati come complesso folk, sono passati al metal solo in un secondo momento. Infatti le componenti metal del loro sound fanno solo da base ai temi folk, che predominano con fiati, archi, ritmi danzerecci e motivi caratteristici della tradizione finlandese.
Il problema di questa band è che una volta trovato il proprio stile ha continuato a fare copia/incolla in un’infinità di produzioni tutte molto simili tra di loro.
Duole ammettere che questo “Jylä” non fa eccezione. Osservando la playlist notiamo che ci sono 13 tracce tra i 3 e i 6 minuti l’una. Che è problematico, perché è tanto. È tanto perché ormai l’attenzione dell’utente medio non va oltre le 10 canzoni, e questo è chiaramente riscontrabile nella maggior parte delle produzioni da qualche anno a questa parte. Ed è tanto perché 4-6 minuti pezzo folk vanno giustificati con idee interessanti, ma non è questo il caso.
Il disco è un flusso ininterrotto di chitarre e bassi pesanti ad accompagnare fisarmoniche, violini, e la voce roca di Jonne Järvelä. Tuttavia mancano quasi del tutto i momenti “wow”, quelli in cui una canzone ci rimane impressa nella memoria. Questa mancanza di varietà rende anche difficile andare ad analizzare l’opera nel dettaglio.
Ad onor del vero, quel “quasi” è giustificato da un paio di pezzi che riescono meglio di altri a catturare l’attenzione: ‘Levälutha’ e ‘Huolettomat’. La prima ci riporta al cantautorato folk italiano stile Modena City Ramblers o Bandabardò, con quell’atmosfera da musica di strada potenziata da ritmi e chitarre più prettamente metal. Scappa un sorriso nello scoprire che due culture così lontane possano comunque trovare dei punti di connessione. ‘Huolettomat’ è un pezzo energetico, veloce ed orecchiabile che avrebbe tutte le caratteristiche di un singolo di successo, e in definitiva è l’unico che entra in testa. A queste possiamo aggiungere ‘Sanaton Maa’ che ha un andamento festoso e un ritornello allego, e ‘Kiuru’ dove troviamo un violino malinconico molto interessante. Bisogna comunque sforzarsi un po’ per notare questi dettagli.
Nonostante qualche momento memorabile, quindi, non ci sono novità rispetto alle opere precedenti. Questo probabilmente farà contenti i fan più affezionati al loro sound originale, però è un peccato che una band che può vantare 11 album e molti anni di attività rimanga chiusa nella sua comfort zone e non riesca a rinfrescare il proprio stile.