Recensione: Kaleidoscope
Spazio: ultima frontiera. Questi sono i viaggi della nave stellare Mekong Delta, la sua missione è quella di esplorare strani, nuovi mondi per arrivare là dove nessuno è mai arrivato prima. Diario di bordo: anno 1992, missione “Kaleidoscope”.
Immaginare i Mekong Delta come una sorta di Enterprise all’interno dell’universo metal e tutt’altro che eresia. Una band, quella tedesca, che è stata tra le prime a dare vita a quel filone, incompreso all’epoca perché troppo avanti per gli anni, che univa il thrash al prog inserendo sfumature provenienti da altri universi musicali. Proprio questa voglia di esplorare nuovi orizzonti ed il tentativo di svelare l’esistenza di nuovi mondi (in un’accezione prettamente musicale) rende il paragone con la famosa Nave Stellare quasi d’obbligo.
“Kaleidoscope” è la quinta fatica dell’ensemble tedesco e primo disco della band senza Jorg Michael alla batteria. Al suo posto, dietro le pelli, troviamo Peter Haas. La copertina del disco è emblematica. Viene ripresa una delle tetre figure della cover del precedente “Dance Of Death (And Other Walking Shadows)”, come se vi fosse la voglia di sottolineare una sorta di continuazione con quel disco. E così, la Morte, rappresentata come una sorte di umanoide senza pelle, uno scheletro ricoperto da soli muscoli, questa volta suona la propria danza al violino con alle spalle una parete di fogli su cui sono impressi spartiti musicali. Un’immagine che fa subito pensare ad una cura maniacale nel songwriting. Ed infatti così è. Se la composizione, fin dal primo disco, è sempre stata curatissima, qui siamo ad un livello superiore.
“Kaleidoscope” è un disco complesso e ricercato ma che risulta “semplice” all’ascolto. Un disco che può essere apprezzato anche da chi musicista non è e da chi non è avvezzo a tali sonorità. Un disco che non risulta mai pesante e che anzi, ad ascolto finito, fa venir voglia di esser fatto ripartire dall’inizio svelando nuovi particolari non notati in precedenza. E così di ascolto in ascolto. Forse frutto di un approccio più ragionato e meno “folle” rispetto al passato, forse merito anche di un Doug Lee perfettamente integrato in seno alla band e la cui voce e stile risultano essere un valore aggiunto. “Kaleidoscope”, forse il disco più prog oriented fin qui realizzato dalla band di Rulph Hubert, racchiude in sé tutte le caratteristiche del quartetto di Velbert. Vengono sfornate nove tracce dalle intricate trame con linee vocali uniche, a tratti dissonanti. Inutile sottolineare la tecnica di ogni singolo musicista, qui siamo a livelli elevatissimi. “Innocent?” posta in apertura, il pezzo più violento del disco, è un un biglietto da visita efficace come pochi altri per descrivere ciò a cui stiamo andando incontro. La successiva “Sphere Eclipse”, forse uno dei pezzi più articolati mai scritti dalla band tedesca, con la sua continua evoluzione e con tutte le idee che si condensano in quei sei minuti, potrebbe dare vita da sola ad un disco. Una canzone che così descritta potrebbe sembrare un mattone per l’ascoltatore ma che invece, come citato poco sopra, risulta magicamente “semplice” e impressionerà ascolto dopo ascolto. Impossibile non restare ammaliati dalla strumentale “Dreaming” in cui il basso di Hubert e la chitarra di Baltrusch risultano ipnotici. Ma ogni canzone di questo disco si rivela come una gemma unica di rara bellezza a cui è impossibile non restare incantati. Tracce come “Shadow Walker”, “Misunderstanding”, la spettrale “Heartbeat” e la devastante “About Science”, posta in chiusura, sono tracce a cui non si può resistere e si svelano pian piano. Completano il disco la cover dei Genesis “Dance On A Volcano” eseguita in maniera magistrale dall’act tedesco e, come da tradizione Mekong Delta, la rivisitazione di una composizione di estrazione classica. Questa volta tocca a “Sabre Dance” presente nell’opera per balletto “Gayaneh” del compositore russo, di origine armene, Aram Il’ič Chačaturjan. “Kaleidoscope” risulta essere un disco di qualità superiore, quinto capitolo nella saga della band capitanata da Ralph Hubert e, cronologicamente parlando, quinto capolavoro.
Un disco che presenta la miglior produzione mai avuta, fino a quel momento, dai Mekong Delta. Da questo platter, band a cui il futuro ha riservato soddisfazioni maggiori (parliamo di vendite) hanno tratto forte ispirazione, basta ascoltare “Sphere Eclipse” e “Shadow Walker” per capire a cosa mi stia riferendo. Anche le liriche trattate, con il loro approccio filosofico e la visione critica di scienza e religione, risultano ammalianti rendendo il disco completo. Se in quegli anni l’America sfoggiava i Watchtower, l’Europa rispondeva con i Mekong Delta.
Marco Donè