Recensione: Keeper of the Seven Keys – The Legacy
Che bisogno c’era di risvegliare, a distanza di diciassette anni, un vecchio e imponente fantasma adagiato nel proprio castello a godersi la meritata gloria passata, presente e futura? Perché riesumare paragoni con un passato pesante, pesantissimo, proprio quando la band sembrava essere riuscita a scrollarsi di dosso i paragoni insostenibili con l’era dorata di Hansen e Kiske? Perché attirarsi la maledizione di quelle cinque parole che hanno un posto speciale nella storia e nel cuore di chi segue o ha seguito gli Helloween? Perché voler brandire nuovamente le sette chiavi più celebri della storia del metal?
Di imperativi, francamente, non ne vedo nessuno. Sì, il potere che un nome come “Keeper of the Seven Keys” può esercitare a livello commerciale ha giocato sicuramente un grosso ruolo nella decisione (soprattutto alla luce dei recenti picchi negativi di gradimento/vendite), ma probabilmente la band si sentiva forte e pronta per una simile impresa, consapevole o meno che avventure di questo tipo il più delle volte si traducono in un verdetto senza appello: un terribile fallimento o una vittoria memorabile.
Musicalmente la formazione tedesca tenta, quando possibile, di spingersi indietro nei modi e nelle sonorità passate, senza poter/voler far nulla di quei cambiamenti che negli ultimi anni hanno colpito la propria musica. Il punto di arrivo è qualcosa di stilisticamente vicino a ‘The Time Of The Oath‘: ovvero reminiscenze antiche rimodellate da una line-up svuotata di due dei suoi pilastri principali e quindi notevolmente mutilata, soprattutto nel songwriting. Fortunatamente, il prodotto finale fallisce nell’impresa titanica di fare peggio di ‘Rabbit Don’t Come Easy‘ (discorso a parte per l’artwork: il più brutto della storia helloweniana).
Molti brani di questa nuova fatica delle zucche portano alla mente più o meno limpidamente un cugino dei tempi che furono. Uno dei casi più clamorosi è proprio in apertura, dove troviamo una suite di 13 minuti dal titolo The King For 1000 Years. Il paragone, neanche a dirlo, è con la monumentale ‘Keeper of the Seven Keys’, capolavoro partorito dalla mente di Michael Weikath quando la band attraversava un’era ben diversa. Nonostante tutto il pezzo se la cava dignitosamente, mettendo in luce discreti spunti dello stile Weikath. Meno epica della lontana parente, The King For 1000 Years gioca tutto sulle atmosfere degli Helloween degli anni ’90, risultando gradevole nonostante la durata eccessiva la renda trascinata e ne penalizzi in parte la resa. Abbiamo poi lunga e buona The Invisibile Man, che inizia blanda per poi richiamare le atmosfere degli helloween di ‘The Dark Ride‘ e sfociare in un ritornello alla ‘I Can”. Abbiamo un singolo sottotono come Mrs. God, che cerca di inglobare in meno di tre minuti tutti gli stereotipi helloweniani senza logica né grinta, fallendo miseramente; e abbiamo Occasion Avenue: altro brano lunghissimo e ambiguo, che si apre addirittura con una carrellata stile radio di alcuni dei ritornelli più celebri della band. Tutte queste pseudo-citazioni non fanno altro che sottolineare il divario tra la produzione odierna e quella degli anni d’oro, penalizzando ancora di più questo nuovo album, che di quelle gemme del power-metal ci mostra una versione sbiadita e impacciata.
Light the Universe, la ballata dove Andi Deris duetta con Candice Night, moglie del menestrello Ritchie Blackmore, raggiunge una sufficienza a fatica. La ballad risulta parecchio scontata e, seguendo il trend di moltri altri pezzi, si porta dietro ul fantasma dei giorni passati: nello specifico ‘Forever & One (Neverland)’. Tra gli esperimenti da dimenticare ci sono due brani abbastanza simili come concetto, fatti di una sterzata atipica a base di un riffing più aggressivo, e sono Come Alive e Do You Know What You’re Fighting 4? (per decenza evito ogni commento sulla scrittura stile Sms che un paio di titoli di questo album mettono in mostra).
Per fortuna però il disco ci riserva anche buone novelle: ovvero il power metal schietto e sincero che è sempre un piacere sentire in un album delle zucche. È infatti quando la band si mantiene fedele a una certa semplicità, senza peccare di presunzione e senza voler emulare il proprio passato, che escono le cose migliori e più in linea con dna helloweeniano: le bellissime Silent Rain e Get It Up in primis, trascinante accoppiata di puro speed metal teutonico. Certo, anche in pezzi come Born On Judgement Day e My Life 4 1 More Day il senso di già-ascoltato non manca, ma quantomeno il gruppo di Amburgo è in grado di proporre un già-sentito che va a segno. Diciamo un marchio di fabbrica che finalmente si fa efficace. Sì, i riff sono diretti e i ritornelli spensierati… ma non sono forse questi gli Helloween? Insomma, siamo di fronte al solito piatto della casa, ma è un piatto che soddisfa il palato di chi di questo ristornate è o è stato un cliente abituale.
Prendere le cose migliori e fare un unico cd con 9-10 pezzi sarebbe stata la scelta ideale, e ci avrebbe consegnato tra le mani un disco di livello discretamente più alto. Invece gli Helloween hanno probabilmente peccato di presunzione e optato per il doppio album, decisione che francamente penalizza non di poco il livello medio e la continuità del lavoro.
In conclusione, il paragone con i primi due episodi non sussiste nemmeno. Letto in questa chiave The Legacy si ritrova spazzato via come una foglia secca in una tempesta: le idee buone ci sono, ma sono qualitativamente lontanissime da quello che la band ha dato nel suo remoto passato. Voglio però essere magnanimo, e scacciare quelle ombre e quegli spiriti che gli stessi Helloween sembrano voler assolutamente rievocare durante l’ascolto. Prendiamo questo album nudo e crudo, senza un titolo e cercando, quando possibile, di fuggire i paragoni. Ecco il resoconto, semplice e tremendamente freddo: un disco buono e un po’ ruffiano, con qualche riempitivo e un paio di passi falsi, ma nel complesso più che ascoltabile, ben suonato e ottimamente prodotto. Il passo in avanti rispetto alle ultime produzioni è notevole e non si può negare: ci sono un paio di pezzi speed molto ben riusciti e una manciata di episodi davvero validi. Quello che purtroppo manca sono gli spunti che una grande band deve saper partorire, soprattutto dopo 20anni di carriera. Sul titolo dell’album e sui richiami col passato si può pure soprassedere, sul nome “Helloween” proprio no.
Tracklist:
* Cd1:
01. The King for a 1000 Years
02. The Invisible Man
03. Born on Judgment Day
04. Pleasure Drone
05. Mrs. God
06. Silent Rain
* Cd 2
01. Occasion Avenue
02. Light the Universe (feat. Candice Night)
03. Do You Know What You’re Fighting 4?
04. Come Alive
05. Shade in the Shadow
06. Get It Up
07. My Life 4 1 More Day
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini