Recensione: Kelle Surut Soi

Di Gianluca Fontanesi - 22 Maggio 2017 - 0:01
Kelle Surut Soi
Band: Havukruunu
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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80

Gli Havukruunu sono una consolidatissima e piuttosto seguita realtà di pagan black ben suonato e in grado di imporsi piuttosto seriamente su un mercato di genere sempre più saturo e amorfo. Già il debutto Havulinnaan, stampato in pochissime copie e oggetto di culto per collezionisti, era ottimo e definiva in maniera piuttosto marcata una personalità solida e un songwriting di tutto rispetto. Kelle Surut Soi, secondo album ufficiale dei finlandesi, esce un anno dopo l’ep Rautaa Ja Tulta e fa fin da subito intendere all’ascoltatore di essere un gran bel lavoro. Il titolo dovrebbe significare “Quelli per cui il dolore canta”, e come da tradizione è totalmente cantato in lingua madre e si presenta maestosamente già dalla splendida copertina. Nel booklet ognuna delle otto canzoni dell’album ha un quadretto dedicato e i disegni sono molto ben fatti; tutto è stato curato nei minimi particolari e, alla pressione del tasto play, l’ascoltatore si trova dritto catapultato del gelido nord. Kelle Surut Soi è un disco potente, trionfale e con parecchi spazi lasciati alla melodia, cori viking inclusi. Il songwriting è sempre abbastanza lineare e vero e proprio marchio di fabbrica della band; il riffing si basa per lo più su accordi aperti o pennate stoppate ed è abbastanza votato al groove e all’accompagnamento vero e proprio. L’aspetto nel quale gli Havukruunu sono assoluti maestri va ricercato nell’atmosfera che riescono a creare e nelle sensazioni che sono in grado di trasmettere; la band è perfettamente in grado di stimolare anche a livello emotivo e arricchire l’ascoltatore con grandi melodie.

Basta già l’opener Jo Näkyvi Pohjan Portit per capire di che pasta sono fatti questi ragazzi: dopo un breve arpeggio si è travolti da una vera e propria valanga costituita da un riff maestoso e un tappeto di doppia cassa che non lascia scampo. Si affacciano subito melodie molto evocative e il piatto è perfettamente servito. La voce spunta per la prima volta dopo un breve stacco acustico ed è ovviamente perfetta per la musica proposta: uno scream arcigno, sporco, grezzo e con quel fare drammatico che è un vero e proprio valore aggiunto alla musica proposta. Ovviamente le clean vocals qui sono bandite tranne nei cori vichinghi, piuttosto ben fatti e mai buttati li tanto per. Vainovalkeat travolge le casse del vostro impianto audio con una sequenza di blast beat micidiali e tanto groove; il riffing qui è serratissimo, zeppo di accenti e il ponte centrale è assolutamente spettacolare. Bellissimo anche il coro nel finale, che rimarrà in mente per molto molto tempo. Noidanhauta sfoggia un altro tema portante epico e assolutamente valido, poi accompagnato da una strofa black classica che mai male non fa. L’apice lo si raggiunge nel ponte acustico, in grado di dare parecchio respiro e un pizzico di imprevedibilità con un riffing tipicamente Immortal e grandiose armonizzazioni a seguire. Vainajain Valot si apre in blast beat e, coi suoi quasi cinque minuti, è il brano più corto del disco. Le altre composizioni infatti si assestano tutte sui 6-7 minuti non stancando praticamente mai l’ascoltatore e offrendo nuovi dettagli ad ogni passaggio. Ogni brano di Kelle Surut Soi ha sempre un ponte maestoso da offrire e puntualmente arriva anche qua, più corto rispetto allo standard ma comunque ben fatto.

Vaeltaja apre la seconda parte dell’album rallentando il tiro e rivelandosi un brano necessario a questo punto in tracklist. Si accelera ma non troppo verso il finale con un’ottima parte solista. Myrskynkutsuja riprende le ostilità con un mood veloce e arcigno e un buon alternarsi di cori e voce principale; la parte finale praticamente folk è tra i migliori momenti di tutto il disco, sia a livello strumentale che vocale. Verikuu tira fuori dal cilindro un altro tema portante di grande fattura e a livello lirico è suddivisa in due parti ben definite: la prima metà cantata totalmente dal coro, mentre la seconda in scream. Funziona piuttosto bene e non v’è nulla da segnalare. La chiusura dell’opera è affidata alla titletrack, che si apre in acustico per poi sfoggiare un altro tema magniloquente e in rigoroso blast beat. Anche qui la strofa è affidata al coro e si assesta su un buonissimo livello; ottimo l’assolo centrale e la melodia che sfuma sul finale è toccante e suadente.

Tempo di conclusioni, anche se non v’è onestamente molto altro da dire. Gli Havukruunu non sbagliano ovviamente disco e non sbagliano nemmeno nulla nel disco stesso; Kelle Surut Soi è un’opera lunga, appassionante e suonata col cuore ancor prima che con gli strumenti. Vi sono in essa grandissimi brani e ottimi spunti anche per il futuro; non c’è ovviamente la pretesa di inventare o sconvolgere gli elementi ma non è nemmeno necessario e l’ascoltatore in questo frangente non ne sente nemmeno il bisogno. Dischi come questo oggi sono necessari, soprattutto per sistemare un po’ le cose e far capire a molti musicisti che prima di tutto la musica è anima, e il resto dovrebbe essere un contorno. Se siete amanti di queste sonorità, di Bathory, Immortal e compagnia bella, non fatevi assolutamente sfuggire Kelle Surut Soi e provvedete immediatamente a conoscere gli Havukruunu, rimarrete tutto fuorché delusi.

 

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