Recensione: Keräily
Avete presente quei dischi che vengono volutamente composti sotto acidi e/o sostanze nocive? Quelle musiche che non avrebbe mai trovato posto nel mondo se “qualcosa” non gli avesse dato una mano ad uscire allo scoperto? Senza stare a fare troppi nomi, poiché la lista sarebbe pressoché infinita, sappiate che stiamo parlando proprio di quella tipologia di album. Gli Atomikylä, sono belli così, prendere o lasciare, un’inno alla droga quale piccolo aiutante per la creazione di mondi paralleli altisonanti e “Keräily” è la fionda per l’iperspazio inesplorato. Il perché ci ha fatto innamorare di questo gruppo, al tanto da volerne parlare, facendogli indirettamente pubblicità tramite questa recensione è presto detto; una combustione delle visioni tipiche del Brian Eno più sperimentale e strumentale, intrecciato ad una psichedelia settantiana in salsa proto-black metal. Cosa? Si proprio questo signori miei. Per renderla ancora più semplice ipotizzate i contemporanei “Oranssi Pazuzu” (chi di voi non li conosce corra a assaggiare la pietanza il prima possibile) e dilatate ancora di più il tutto attraverso i Dark Buddha Rising con le loro visioni che ne scaturiscono per creare un labirinto di bestie feroci, ponti levatoi, omini buffi che vengono dallo spazio, fiori che cantano e qualche bevanda troppo gassata. Quale informe mescolanza di intenti viene a crearsi. Non siamo così sprovveduti qui, non siamo a schiacciare i punti neri dei caimani, la “fama” degli Atomikylä è arrivata ancora prima dell’uscita ufficiale di questo loro secondo parto ufficiale sulla lunga distanzaqualche mese addietro. Il geniale Lee Dorian, curatore dell’ultimo Roadburn Festival nel 2016 li ha voluti presenti alla manifestazione e tutti sappiamo che esibirsi lì, a Tilburg, riescono solo in pochi rispetto a tutti coloro che vorrebbero o meriterebbero. Un motivo dunque ci sarà? Una parte della geniale follia sarà anche pervenuta in altre sedi oltre questa? Crediamo proprio di si. Veniamo a noi or-su-per-giù-dunque-mente. (?)
“Keräily” è composito di sole tre tracce, dal titolo che è di per sé un programma: “Katkos” (Rottura), “Risteily” (Crociera) e “Pakoputki” (Tubo di scappamento) non sono le classiche canzoni da “metalhead”, non sono nemmeno brani classificabili nel metal comune, anzi non so nemmeno se siano considerabili appartenenti ad un genere. C’è di tutto e di più qua dentro ed è un tutto fatto bene, per quello che la realtà delle droghe sintetiche o meno riesca ad offrire. Ma non giudichiamoli come persone, guardiamo la musica e andiamo oltre. Si parte in quarta con una suite da diciotto minuti che compone il 55% circa dell’intera durata, atipica ma geniale come scelta stilistica. Descrivere certe composizioni è assurdo e stilisticamente attaccabile vista la mole di deviazioni che vi si possono riscontrare all’interno. Un Sax che fa da spalla a synth sinistri con un cantato completamente in Finlandese adagiato su moog e distorsioni tipiche del rock settantiano d’annata. Non è black, è black, è avanguardia nella sua forma più canonica ovvero, non avere forma alcuna se non sé stessa plasmandosi e cortoncendosi ad ogni attimo. Pensate solo che gli ultimi sei minuti sono suoni e urla al limite dell’improvvisazione, con il riff base di chitarra reinterpretato in molteplici sfumature, quasi sfidando sul finale gli ultimi Ulver più metafisici. La seconda magnifica “Risteily” nella sua intensità è probabilmente l’apice compositivo dell’intero album, poco più di nove minuti di sperimentazione e cecità notturna completamente strumentali. Un riff grosso e ciccione che sfuma e si dilata sino a diventare una simil composizione a-là Frank Zappa, dove l’anello di collegamento tra gli artisti, risiede nell’imprevedibilità del crescendo; provare per credere con il cambio di tempo a 4:48 attraverso i fiati ed i synth che sogghignano spavaldi e sinistri sino a conclusione del tutto. Non solo droghe, che maestria riusciamo a trovare nell’inconscio. Applausi sul ritmo semi arabeggiante a 5:50, che genio e follia musicale, in poche parole, classe. Il grand finale è dedicato a “Pakoputki” (Tubo di scappamento) con i suoi “soli” sette minuti di distorsioni e convulsioni, l’ingresso allegro e leggiadro dura per poco più di due minuti sino a quando latrati, echi in lontannza e ritmi dispari ci conducono lungo una spirale senza fine verso l’ignoto. Un mantra, un loop costante di anarchiche vibrazioni che si ingrossano come la marea grazie ad un riffone sludge a metà che prende fiato dai venti estivi per liberare la carica inesplosa in precedenza. Tutto in costante divenire, sino al concludersi dell’apocalisse sonora attraverso un monocorde che ci accompagna all’uscita, dove possiamo finalmente e/o sfortunatamente tirare fiato perdendoci nel capire cosa sia appena accaduto. Viene voglia qualche istante dopo di premere play nuovamente per riascoltarlo al buio come ora, mentre vi scrivo, in cuffia mentre la notte si impossessa della luce mano a mano.
“Keräily” non è un album convenzionale, non mi prolungherò molto sottolinenando l’originalità della proposta, che come contemporaneo vuole, ha tutto e nulla al suo interno; non appartiene ad un canone musicale specifico e probabilmente in certi tratti nemmeno è descrivibile quale musica. Sono tele astratte bianche dove l’artista moderno, segnando un punto rosso in un luogo indefinito, rivendica il suo diritto al minimalismo più oltranzista. Gli Atomikylä hanno le carte in regola per andare avanti a vele spiegate, prendere la loro musica e creare il tutto dal nulla; se queste sono le premesse il futuro li vedrà sempre più “oltre”, riuscendo a scavalcare i pregiudizi, i muri immaginari e le paralisi mentali. Noi supportiamo questi mondi irrequieti, noi abbracciamo all’informe che prende il sopravvento sulla consuetudine, noi abbiamo bisogno anche di queste piccole ma assolutamente importanti realtà. Applausi.