Recensione: Kezia

Di Stefano Saroglia - 27 Ottobre 2020 - 12:40

I Protest the Hero sono un gruppo canadese progressive/metalcore formatosi nel 1999 inizialmente con il moniker “Happy Go Lucky”. Il combo originale del gruppo è costituito da Rody Walker alla voce, Tim Millar alla voce e alla chitarra, Luke Hoskin alla chitarra, Morgan “Moe” Carlson alla batteria e Arif Mirabdolbaghi al basso. La band muove i primi passi quando i componenti hanno circa 14 anni: la prima demo – Search for the Truth – è del 2002. Segue l’Ep A Calculated Use of Sound nel 2003 uscito sotto l’etichetta discografica punk rock Underground Operations ma l’attenzione del grande pubblico arriva nel 2004 con l’album A Calculated Use of Sound Re-release.

La svolta stilistica avviene infine nel 2005 con il concept Kezia: i suoni seminali cedono il passo a un metal di natura estremamente tecnica che spesso lascia intravedere contaminazioni di stampo hardcore e math, con le linee vocali di Rody Walker a fare da contraltare all’intricato tessuto sonoro. E proprio il cantante, in un’intervista del luglio 2006, parla della genesi dell’album: «Ci sono due modi per spiegare il concetto alla base di Kezia: il significato letterale e il significato più profondo dietro di esso. La spiegazione più semplice è che ci sono tre personaggi nell’album che descrivono una certa situazione dal loro punto di vista, ossia l’esecuzione di una donna. Abbiamo scelto un prete, una guardia carceraria – che è anche il boia – e la donna in questione, Kezia. […] Il significato più profondo del concept è la progressiva caduta della nostra società. Abbiamo cercato di rendere il testo senza tempo, in modo che la storia possa essere riferita a qualsiasi epoca. Ci sono anche critiche politiche e sociali.»

Con un concept così impegnato non possiamo che aspettarci una resa sonora altrettanto importante. Il disco si apre con “No Stars Over Betlehem“: un progressivo crescendo introduce una ritmica frenetica e compulsiva stemperata dalla voce di Rody che inventa (letteralmente) melodie su passaggi strumentali di non semplice gestione. Talvolta fanno capolino anche parti in scream e svariati tour de force ritmici che scandiscono il complesso tessuto ritmico. “Heretics And Killers” presenta una struttura frammentaria che si sorregge su una serie di start/stop sincopati all’estremo: la voce si cimenta in diverse variazioni di registro. I riff si succedono senza sosta, sgretolando, colpo dopo colpo, la visione della struttura tradizionale di canzone. La terza traccia, “Divinity Within“, si fonda su un riff insistito e serrato (leit motiv dell’intero pezzo): le chitarre sfoggiano la propria maestria nelle pennate che si incastrano incessantemente e in modo perfetto. Le liriche rendono fluido il tutto e un interludio pianistico di Hoskin sancisce la fine della canzone e del primo atto del concept.

In “Bury The Hatchet” i giri del motore aumentano nuovamente, i riff si succedono copiosi, veloci e aggressivi. Rody attinge a tutti gli espedienti del mestiere per fornire una prova vocale variegata fatta di melodie, scream e growl. Anche “Nautical” mantiene alti i bpm, ma nel complesso presenta una struttura più lineare rispetto alle precedenti tracce. La canzone è diretta e godibile, le sezioni si alternano in modo naturale e anche quando i musicisti prendono (parzialmente) fiato dimostrano una padronanza tecnica assolutamente fuori dal comune. “Blindfolds Aside” è il primo singolo estratto dall’album e uno dei momenti più alti di tutta l’opera. Le ritmiche sono ricche e ben orchestrate, le parti solistiche appaiono le più ispirate e a livello armonico si susseguono tensioni interessanti. La voce, infine, caratterizza magistralmente il pezzo. Curiosa la scelta di inserire nel finale un pezzo chitarra pulita/voce (guest vocalist Jadea Kelly) che rimanda ai tempi delle vacanze estive in parrocchia… Il terzo atto prende il via con il martellamento forsennato di “She Who Mars The Skin Of Gods“: il pezzo si snoda in momenti adrenalinici alternati a parti di maggior respiro. Molto curata la chiusura del pezzo, caratterizzata da un coinvolgente contrappunto di chitarra e voce. La settima traccia “Turn Soonest To The Sea” inizia in modo elaborato: la struttura del pezzo prevede i canonici momenti in stile neoclassical, sezioni groove e hardcore. Il pezzo evolve poi in una sezione poco coerente in cui il mood può ricordare (udite, udite!) i Nickelback. “The Divine Suicide Of K” presenta una struttura semplice e convincente; la doppia voce (ricompare Jadea Kelly) risulta pleonastica, essendo già il pezzo denso di suggestioni vocali di ogni tipo. Il ticchettio finale che accelera sul finire del pezzo è evocativo della sorte che attende Kezia. Chiude l’album “A Plateful Of Our Dead”, con i suoi consueti cambi di riff e di tempo (molto bella la sezione in tre quarti). La conclusione è demandata alle note di una chitarra pulita, che rendono il finale suggestivo e lirico.

Kezia è un ottimo disco, ricco di spunti e di idee, dal songwriting fresco e intricato. La caratura tecnica emerge in modo inequivocabile ed è innegabile lo sforzo (quasi sempre riuscito) di controbilanciare la complessità con la melodia delle linee vocali. La sezione ritmica è poderosa: Arif Mirabdolbaghi (autore di tutti i testi) e Morgan Carlson costruiscono una macchina in grado di destreggiarsi tra metriche non regolari, tempi dispari, accelerazioni e decelerazioni repentine. Ciò che potrebbe risultare limitante è la volontà ostinata di rinnegare la forma tradizionale della composizione: molto spesso le strofe non si ripetono, non esistono ritornelli, alcune parti si alternano in modo poco fluido. Questa eccessiva frammentarietà alla lunga rischia di penalizzare le canzoni rendendo l’ascolto ostico. Ciononostante l’album si mantiene su livelli qualitativi molto elevati: non male, considerando che all’epoca i Protest The Hero avevano 18/19 anni!

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