Recensione: Killers
LINE Up
Paul Di’ Anno – V
Adrian Smith – G
Dave Murray – G
Steve Harris – B
Clive Burr – D
E’ sempre difficile per un recensore avviarsi a commentare un album storico, classico, immancabile nella collezione di qualsiasi metaller. Di solito ci si perde nella adorazione anche del più breve riff, e nella glorificazione di questo o di quell’assolo. Cercherò di essere quanto più possibile obiettivo ed oggettivo nel recensire queste perla di album.
LA STORIA
Siamo nel 1981, Steve e co. sono reduci dal successo del loro primo album, e ingaggiato come produttore il celebre Martin Birch, si chiudono in sala registrazione per riarrangiare alcune loro vecchie canzoni e per crearne di nuove. La formazione subì un cambiamento proprio alcuni giorni prima della recording-session, quando Dennis Stratton abbandonò i Maiden per divergenza di gusti musicali (Dennis era un fan sfegatato dei Led Zeppelin, e formerà in seguito i LionHeart), e fu rimpiazzato da un vecchio amico di Dave, Adrian Smith; tornando alla genesi dell’album, aggiungo solo che l’apporto di Adrian fu alquanto benefico per la band: suoni più compatti, più compressi e assoli molto più armonici e veloci. “Killers” riprende in pieno lo stile del precedente disco, ma ne migliora la tecnica e l’ attitudine, mantenendone immutata la potenza. Il tutto grazie al già citato Martin Birch.
TRACK BY TRACK
The Ides of March
Intro molto suggestiva, nella quale subito si possono apprezzare le migliorìe nel sound apportate da Adrian. Clive poi fa da sfondo con un pattern molto ricercato e studiato. L’assolo che occupa il centro del brano è così dolce ed emozionante che sembra parlare. Una intro davvero azzeccata (Se ne ricorderanno l’anno dopo i Judas Priest in “The Hellion”). Toccante.
Wratchild.
Parte con un aggressivo riff di basso, dopodichè entrano le chitarre con un trascinante riff. Il testo è, come gran parte delle canzoni scritte negli “early days”, molto adolescenziale: un ragazzo cresciuto nel male dell’umanità, viaggia per il mondo alla ricerca del padre (per riabbracciarlo, o per vendicarsi? “I’m coming to get you!”). Il sound è il classico della NWOBHM, curato nei minimi particolari, col basso molto presente e un chorus coinvolgente; memorabile la prestazione di Paul, graffiante e cattiva. Una canzone immediata e veloce, riproposta quasi sempre nei tour della band. Rabbiosa.
Murders in the Rue Morgue.
Questo brano è sicuramente uno dei capolavori di quest’album. E’ uno dei pochi ad esser stato composto ex-novo, e la maturità aquisita in questi anni si percepisce subito. Innanzitutto il testo: curato, ben scritto, e come avrete dedotto dal titolo, liberamente ispirato all’opera omonima di E. A. Poe. L’intro è emozionante, 20 secondi di incantevole melodia che sfociano in un tempo serrato che ben riflette il carattere della canzone e del testo: un uomo che si ritrova sulla scena del crimine (sarà stato lui o no ad uccidere le due vittime? “I got some blood on my hands”) e che inseguito dalla gendarmèrie fugge a Sud in Italia. Un ottimo esempio di perfetto rapporto tra tematica e sound. Come al solito, basso molto presente, chitarre aperte e compresse e ottima linea vocale. Clive, dal canto suo, non annoia mai coi suoi ritmi alternati. Un classico del repertorio, che purtroppo viene proposto di rado nei tour. Incalzante.
Another life.
Stavolta l’intro è affidata a Clive, con un giro di tom e timpano semplice ma efficace, così come il testo, breve e criptico (chi sarà il malcapitato immerso nell’atmosfera tenebrosa di una vita angosciata da presenze maligne? “Sweet voices come into my head”). Una canzone diretta ed essenziale, ed è facilmente deducibile che sia una vecchia creazione di Steve poi riarrangiata per l’occasione. Sintetica.
Genghis Khan.
Il testamento musicale di Clive. Molti saranno d’accordo con me su questa definizione, però è d’obbligo una precisazione: il testamento non risiede nel velocissimo intermezzo di questa strumentale, ma in tutta la canzone; la genialità di Clive sta nel dipingere con bacchette e batteria al posto di pennelli e tela l’immagine dell’immenso esercito mongolo del comandante Khan, un esercito che marcia lentamente, composto e quadrato, che appena vede il nemico alza le lance al cielo e corre inesorabile verso di lui. E’ tutto lo sviluppo dei pattern, che raggiunge l’apice nella fuga, ad essere maestoso. E, come incredibili compagne di questa immaginaria cavalcata, le chitarre, velocissime e serrate. Epica.
Innocent Exile.
Dopo l’abbuffata di note della canzone precedente, c’è bisogno di un po’ di calma: Steve dà il via a questo brano con un giro di basso molto particolare, al quale seguitano le chitarre con un riff anch’esso caratteristico. Il testo, cantato molto bene da Paul, racconta ancora di un assassino (d’altronde l’album si chiama “Killers”…) in fuga: “I’m running away, nowhere to go”. Nel mezzo, ancora il giro di basso che fa da preludio a due assoli veloci e taglienti. Una canzone dove si mettono in mostra le immense doti degli strumentisti, mascherate dalla semplicità della struttura del brano. Concisa.
Killers.
“A voice inside me compelling to satisfy me”… Una voce dentro l’assassino, che chiede sangue e morte. Il brano inizia con un oscuro giro di basso, sul quale echeggiano le urla furiose di Paul, poi esplode in un fiume in piena di aggressività e cattiveria, nel quale si incastrano ritmiche sostenute e riff graffianti, adagiate su un tappeto di percussioni incalzanti e nervose. Il testo parla dei sentimenti di un assassino, che vaga per la notte nelle stazioni della metropolitana in cerca di una appetibile preda, colpevole di non camminare protetta dalla luce (“Another tomorrow, remember to walk in the light!”); un assassino che sembra non conoscere la parola pietà, ma che alla fine si rivela nel suo doppio ego interiore: “Oh God help me what have I done? / Oh yeah, I’ve done it!”. Gli assoli sono spettacolari, al fulmicotone,veloci e potenti. Un capolavoro assoluto, una perla del repertorio Maiden; a volte mi chiedo come sia possibile che un giovanotto di 26 anni abbia potuto concepire una canzone del genere. Assassina.
Prodigal son.
La ballad dell’album. Ma per certi versi è la ballad per eccellenza dei Maiden; in verità, Steve e soci ne hanno scritte pochine di canzoni lente e melodiche (Strange World, Journeyman), e secondo il mio modesto parere, il primato spetta proprio a “Prodigal son”. Il testo racconta di un uomo alle prese col Maligno (forse Faust? “The devil’s got a hold of my soul, and it’s driving me mad”), e la storia si snoda su melodie dolci di chitarra acustica; la voce è calda e ben adatta alle tematiche; il basso si fa sentire soprattutto con licks efficaci e indovinati, ben sostenuto dalla linea ritmica di Clive. Una bellissima ballad, che colpisce per la sua semplicità e naturalezza. Atmosferica.
Purgatory.
Dopo la quiete, ecco la tempesta, sotto forma di una canzone che esprime tutti i canoni dell’heavy metal: velocità, potenza e aggressività. Il brano inizia col riff di Dave sul quale si inserisce la ritmica pressante di Adrian, che fanno da sfondo al pezzo forse più impetuoso dell’album. Coi canoni dei nostri anni, potrei senza dubbio parlare di “Purgatory” come un pezzo power, che si esprime su b.p.m. alti grazie agli incalzanti patterns di Clive, contornati dalle cavalcate di Steve. Il testo è molto “ermetico”, e, forse, parla di esperienze extra-corporee ed extra-mentali (“My body tries to leave my soul”). L’unico punto di respiro è il break che segue il chorus, tappa che serve a preparare le orecchie agli assoli. In breve, un brano spaccaossa che vi farà sobbalzare dalla sedia. Schiacciasassi.
Twilight Zone.
Altra canzone appartenente al repertorio Smiler di Steve. Struttura classica, strofa e chorus, che non rende merito alla finezza del testo, che parla di un uomo morto ma che continua a vivere da fantasma vicino alla sua donna amata (“When she stares at me, she can’t see nothing at all”, deja-vu di “Ghost”?). La storia si sviluppa su un tempo abbastanza sostenuto, dove il basso spadroneggia.Una canzone che non si stampa in mente come melodia, ma il cui testo è davvero incantevole. Commovente.
Drifter.
Ultima canzone dell’album, anch’essa risalente all’era pre-Maiden di Steve. Stavolta il protagonista è un uomo misterioso, che vaga cantando una sua canzone (“I’m gonna keep on roaming gonna sing my song”). La musica è divertente e veloce, che non manca di mettere in mostra la potenza soprattutto negli assoli e nel lungo “encore” che porta alla conclusione del disco. E’ evidente che la seconda metà della canzone è stata aggiunta in fase di riarrangiamento, dato soprattutto il fatto che ad essa veniva affidato l’ònere della chiusura; brano esaltante ed allegro. Trascinante.
SOUNDS GOOD?
Voce.
Ottima prestazione di Paul, efficace nelle parti rudi come negli spezzoni soft. Come disse Steve in un’intervista, Di’ Anno aveva un gran dono, la voce, che purtroppo ha dissolto nel fumo e nelle droghe. Un Paul così non lo si è visto più, nemmeno in questi anni nei quali canta in varie cover-band dei Maiden (Children of the Damned). Peccato, un vero talento, che si è perso per strada. Rimane quest’album a testimonianza delle sua grandi qualità.
Basso.
Che dire? Ogni in parola può risultare in più sulle doti di Steve. Semplicemente eccelso, unico e inimitabile. Il cuore della favola Maiden.
Batteria.
Clive ai suoi massimi livelli. Nemmeno in “The number of the Beast” riuscirà a proporsi in maniera così varia e così efficace. Ma la cosa più impressionante è che la magia del suo stile non risiede in virtuosismi particolari (Doppia cassa, doppio pedale…), ma solamente nella sua semplicità e varietà. Nessuna canzone ha la linea ritmica uguale e nemmeno simile alle altre. Una divinità della batteria. Purtroppo, come molti di voi sapranno, oggi è costretto sulla sedia a rotelle dalla sclerosi multipla. In bocca al lupo, Clive; buona vita.
Chitarre.
Applausi a Dave per aver presentato Adrian alla band. Il suo apporto è stato fondamentale per rendere le canzoni più complesse dal punto di vista strutturale, e per creare quelle magnifiche melodie ed assoli (Un esempio del salto di qualità con Adrian? Ebbene, egli è stato l’ideatore del riff che fa da sfondo alla strofa di “Killers”). Dave, dal canto suo, riesce sempre a stupirci con i suoi riff e assoli puliti, veloci e impeccabili.
Produzione.
Grande merito del rinnovamento del Maiden-sound va a Martin Birch. Steve ha dichiarato più volte di odiare “Iron Maiden” proprio per la produzione di basso livello. Ottimo lavoro nel rendere più caldi i suoni e nel far esprimere Paul ad alti livelli.
COMMENTI FINALI
L’album nel suo complesso fa parte sicuramente della storia dell’heavy metal. Vi troviamo all’interno tutte le caratteristiche che saranno seminali per le band che prenderanno spunto dai Maiden negli anni a venire. L’unico neo di che si può attribuire a “Killers” è la puerilità di alcuni testi e strutture compositive; ma teniamo conto che Steve e compagni erano ragazzi che sfioravano appena i 26 anni a quei tempi, possiamo quindi chiudere un occhio su ciò. Dopo l’ascolto le canzoni rimangono fisse in testa grazie alla loro semplice eppur affascinante melodia. Come si sa molti brani sono diventati dei classici che vengono riproposti spesso e tutt’ora in sede live. Sinteticamente, l’album è un capolavoro.
TRACKLIST 1. The Ides of March 2. Wratchild 3. Murders in the Rue Morgue 4. Another life 5. Genghis Khan 6. Innocent Exile 7. Killers 8. Prodigal son 9. Purgatory 10. Twilight Zone 11. Drifter
Recensione a cura di Luca “NikeBoyZ” Palmieri