Recensione: Killhammer
La storia del heavy metal è costellata da bands immortali, complessi dimenticati ed epigoni che, senza brillare di originalità o tecnicismo, restano esempi, per così dire, di “incrollabile” coerenza.
A questa fede appartengono ovviamente i Mystic Prophecy, esponenti del power metal più roccioso e oltranzista, con qualche “veloce incursione” nel panorama thrash ed estremo.
“Killhammer” è l’ottavo di una lunga discografia che, seppur segnata da innumerevoli avvicendamenti di line up, ritrova come leader indiscusso Roberto Dimitri Liapakis, cantante di origini greche che militava nei Valley’s Eve.
Il soggetto è ovviamente epico e battagliero, perfettamente in linea con la proposta del combo: non a caso, infatti, “Killhammer”, evoca il guerriero drakkar sulla cover, la cui possanza è trasposta in musica grazie all’incedere monolitico del pattern, il quale procede lineare, senza divagazioni o sorprese di sorta, testimoniando la coesione stilistica proposta dal combo.
Il concetto di epos guerresco è fermamente ribadito ed espanso da “Armies Of Hell”, impeto semi- thrash di batteria e chitarra.
Dall’altra parte, la dimensione più eroica acquista forma ideale nel chorus di “To Hell And Back”, anche grazie all’ottimo bilanciamento tra melodia velata (l’arpeggio iniziale) e adrenalina (ritmiche frenetiche), senza rinunciare al midtempo d’effetto, giocato sull’intreccio chitarristico.
Che “l’incursione” venga condotta dal basso rutilante di “Kill The Beast” o dalla raffica ritmica di “Children Of The Damned”, il registro si mantiene fedele al heavy teutonico più intransigente, vera manna per i defenders.
L’irruenza è controbilanciata dalle parti vocali power oriented: “Kill The Beast” inneggia con voce epica, che si stempera in brevi inserti corali, giocati su tonalità più alte per enfatizzare la melodia. Ancora power metal nel coro di “Children Of The Damned”, dove la voce cita Bruce Dickinson e suoi successori; immancabile il susseguirsi di cambi di tempo, accelerazioni e vibrati acuti, protratti in chiusura del guitar solo, per conferire eleganza ed emotività.
“Hate The Black”, invece, rifiuta l’armonia del chorus, preferendo un ritornello breve e privo di fronzoli mentre la sessione strumentale incede e muta, variando il tempo d’esecuzione (c’è pure posto per un midtempo degno dei Four Horsemen!).
Così, come per “Hate The Black”, anche per “300 In Blood” (rievocazione della battaglia delle Termopili) la parte più melodica è costituita dall’incipit strumentale: se la prima nasceva da un riff orientaleggiante, la seconda si sviluppa con un leggero arpeggio e una scala neoclassica (rimando “inaspettato” a Malmsteen), poco prima di essere “aggredita” da una ritmica convulsa. La voce è dinamica, passando da tonalità liriche (evidente retaggio di “Chemical Wedding”) a innesti gutturali, che sfiorano il movimento estremo (d’altronde Dennis Ekdahl, batterista della precedente formazione, proveniva dai Raise Hell, alfieri del thrash metal svedese).
Scorci più controllati si intravvedono nel prosieguo del brano, dove la chitarra delinea un’armonia onirica tra un assalto e l’altro.
Le influenze thrash si fanno nuovamente sentire in “Angels Of Fire”, tributo alla scuola americana (riff intricati con “venature” vagamente a là Megadeth), senza rinunciare a un chorus accorato, imprigionando nel trasporto emotivo dei vocals l’ascoltatore rapito.
Chiudono il lavoro la tellurica “Warriors Of The Northern Sea” e “Set The World On Fire”: nella prima un riff compatto, duro, con riverberi melodici della sei corde, apre l’incursione dei Nostri indomiti guerrieri. La scorribanda alterna, a sessioni possenti e rallentate (dominate da un cantato grezzo e “distorto”), fughe guidate dalle voci corali, che conferiscono un approccio più melodico; l’alternanza si fa più sottile quando il main vox è duale: Liapakis interpreta un alterco tra voce brutale e cantato pulito, confluendo nel conseguente, epico coro.
La programmatica “Set The World On Fire” sprigiona la forza dei padri Armored Saint e la unisce con la foga dei Griffin, consegnando un messaggio eversivo al ritornello che si tinge di melodia hard’n’heavy, dove è espressa tutta la rabbia verso la corruzione politica… senza concessioni di sorta (“…politicians fucking liars…”– una tripletta memorabile!).
Aggiunta trascurabile al platter è l’ennesima cover di “Crazy Train”, che, spogliata della verve originale, propone soluzioni non sempre azzeccate (un lead vox non appropriato) e prive di quel quid che caratterizzava l’immortale interpretazione del compianto Randy Rhoads.
“Killhammer” è dunque null’altro che l’ennesima conferma di un complesso che propone una musica onesta, senza pretese o sconvolgimenti di sorta, un lavoro che si lascia apprezzare ma che non rinnova un sound ormai ampiamente collaudato.
Speranzosi in un avvenire più fulgido, attendiamo il nuovo episodio di questa saga perché il rock ha bisogno, oggi più che mai, non solo di certezze ma, anche e soprattutto, di nuove idee.
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