Recensione: Killing Innocence
Otto anni, otto lunghi anni. Tanto abbiamo dovuto attendere per un nuovo lavoro griffato Graveworm. La formazione altoatesina, infatti, fa il suo ritorno in scena in questo bollente 2023 e, forte del contratto con AFM Records, pubblica il proprio decimo album in studio, intitolato “Killing Innocence”.
Sebbene sia passato più di un lustro, il tempo sembra essersi fermato per la formazione capitanata da Stefan Fiori. Sì, perché “Killing Innocence” prosegue il percorso interrotto dai Graveworm nel 2015. Il nuovo lavoro, infatti, presenta tutte le peculiarità della band di Brunico e può essere definito come un album di death melodico, in cui la componente black sinfonica degli esordi e la matrice goth – da sempre insita nella compagine italiana – fanno più volte capolino lungo i quasi cinquanta minuti di durata. Un mix sonoro definito dallo stesso gruppo come dark metal, termine che mette subito in chiaro quali siano gli intenti in musica dei Graveworm. “Killing Innocence”, inoltre, regala un importante impatto visivo, frutto dell’affascinante copertina – realizzata da Daniel Hofer – che rappresenta alla perfezione il concetto di dark metal tanto caro alla band. Entrando nel dettaglio del disco, “Killing Innocence” si presenta con una produzione curata ed elegante, che riesce a valorizzare ogni strumento. Le composizioni sono intrise di un’aura oscura, una nube nera pronta a uscire dalle casse dello stereo per avvolgere, catturare e proiettare l’ascoltatore in una dimensione parallela. I Graveworm, come novelli Caronte, ci condurranno quindi in un mare fatto di sofferenza, agonia, depressione e voglia di riscatto. Con questi presupposti “Killing Innocence” potrebbe e dovrebbe risultare un disco riuscito, trascinante, pronto a toccare l’ascoltatore nel suo io più profondo. Ma è veramente così? Eh, non proprio… “Killing Innocence”, purtroppo, presenta alcune piccole lacune, che però vanno a incidere in maniera pesante nella nostra analisi. Sì, perché l’album risulta troppo lineare, privo di quella dinamica capace di tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore. Ci troviamo così intrappolati in quella nube nera citata in precedenza, senza però riuscire a effettuare il viaggio introspettivo che ci si aspetterebbe da un disco simile. Per quanto piacevoli, le melodie decadenti proposte dai Graveworm faticano a toccare l’ascoltatore. Mancano quelle accelerazioni in grado di farci sobbalzare dalla sedia, quei momenti che dovrebbero rappresentare la rabbia sprigionata dalla sofferenza. I pezzi risultano ben strutturati, sia chiaro; dal punto di vista compositivo i Nostri la sanno lunga. Nella sua interezza, però, “Killing Innocence” fatica a lasciare il segno. È vero, ci sono tracce come ‘Escorting the Soul’, che prese singolarmente sembrano andare in controtendenza a quanto appena scritto, ma ascoltando “Killing Innocence” dall’inizio alla fine anche tali canzoni non riescono a incidere a dovere.
Come considerare “Killing Innocence”, quindi? Beh, come sottolineato in sede di analisi, possiamo sicuramente dire che la nuova fatica griffata Graveworm mette in evidenza tutte le peculiarità che hanno sempre contraddistinto la compagine italiana, sia nei pregi, che nei difetti. Un lavoro curato ed elegante, a cui, però, manca quel pizzico di personalità, di mordente per poter lasciare il segno nell’ascoltatore. Sia chiaro: il disco è suonato in maniera magistrale dal quintetto altoatesino, le composizioni si rivelano ben strutturate ma, preso nella sua interezza, “Killing Innocence” non riesce a fare breccia, in quanto troppo lineare nello sviluppo. Sì, ma quindi? Eh, diciamo che dopo otto anni di attesa per un nuovo album ci aspettavamo qualcosina in più dai Graveworm, inutile negarlo. Le qualità della formazione capitanata da Stefan Fiori sono note a tutti, è normale che l’asticella delle aspettative fosse posta in alto, molto in alto. Il decimo lavoro in casa Graveworm, purtroppo, pecca in mordente, personalità e, soprattutto, non riesce a trasmettere quelle emozioni che ti aspetteresti da una band dark metal. Un vero peccato.
Marco Donè