Recensione: Killing Machine/Hell Bent For Leather
Black as night, faster than a shadow
Crimson flare from a raging sun
An exhibition, of sheer precision
Yet no one knows from where he comes
(Hell Bent For Leather)
“Killing Machine” esce in Europa il lontano 1978 e in USA nel 1979 con il differente titolo di “Hell Bent For Leather”. La versione americana differenziava, oltre il titolo, da quella europea per la presenza della killer cover track The Green Manalishi. Qualche anno addietro è stata ristampata una nuova versione di “Killing Machine”, per la serie The Remaster, contenente anche la song The Green Manalishi andando così a rendere una sorta di “doverosa giustizia” anche nei confronti della versione europea. Killing Machine/Hell Bent For Leather segna un passo importante nella discografia della band britannica, un album che andrà a chiudere la loro carriera “seventies” nel modo migliore grazie ad un roccioso platter senza tempo.
Hell Bent For Leather da il via alle danze con le gratitiche Delivering Of The Gods e Rock Forever possenti ed impetuose nella loro ferree esplosioni di riff. Rob “The Only Metal God” Halford mostra un cantato aggressivo ed impeccabile e già da queste prime note il sound della band sembra più corposo e compatto rispetto ai precedenti dischi. La seguente Evening Star, (singolo del disco) è caratterizzata da un sound “catchy” e ritmi hard rocckeggianti mentre sicuramente è uno dei punti più alti dell’intero lavoro è la seguente ed inossidabile Hell Bent For Leather! E qui un vortice di puro metallo pesante ci introduce ad un brano fatto di riff trascinanti, veloci, metallici, possenti e refrain assolutamente devastanti che ci proiettano nella dimensione dell’acciaio marchiato Judas Priest, insomma uno degli “all time classics” della band. Da questa song si mette in evidenza un certo ulteriore indurimento del sound del gruppo, sound che caratterizzerà i capolavori che definiranno la loro epoca “eighty”. Dopo questa sfuriata di metallo puro giunge il classico inno priestiano che prende il nome di Take On The World, caratterizzato da un refrain carico di pathos misto a chorus di effetto garantito.
Non sfigura dopo quanto udito la successiva e ispiratissima Burnin’Up dove un Rob particolarmente trascinante detta legge ed arricchisce questo originale brano di un certo misterioso alone passionale che permea dai ritmi a tratti blandi e pacati. Segue la cover targata Fleetwood Mac (e scritta da Peter Green) The Green Manalishi che i Judas Priest reinterpretano in chiave Heavy Metal arricchendola di nuovo fascino. La title track della versione europea,Killing Machine, è trascinata dai suoi riff potenti e graffianti, preludio ad un’altra song capolavoro, ovvero la titanica Running Wild, nella quale velocità, potenza e pathos si mescolano dando origine ad un incandescente brano che entra di diritto tra i classici del genere. Bellissima quanto triste ed angosciante la lenta Before The Dawn, pregna di autunnali atmosfere, mentre il compito di chiudere il disco è affidato ad Evil Fantasies che ci riporta su territori più “loud oriented”.
Su tutto il disco, l’eroica interpretazione di Halford insieme allo stato di pura e metallica grazia raggiunto dagli altri elementi del gruppo furono come un mistico e duro monito verso tutte le band che da lì ad un anno sarebbero esplose cavalcando l’ondata della NWOBHM, un monito a ricordare chi l’Heavy Metal lo souonava da ben molti anni prima, un monito che diventerà un possente ruggito nel seguente e senza tempo British Steel.
Hell Bent For Leather è storia, è musica, è Heavy Metal.
Vincenzo Ferrara
Track list:
01) Delivering the goods
02) Rock forever
03) Evening star
04) Hell bent for leather
05) Take on the world
06) Burnin’ up
07) The green Manalishi (with the two-pronged crown)
08) Killing machine
09) Running wild
10) Before the dawn
11) Evil fantasies
Bonus Track nella versione The Remaster:
Fight For Your Life
Riding On The Wind (live).