Recensione: Killing Tongue
In pieno clima di revival rock come quello a cui stiamo assistendo in questi ultimi tempi, fa piacere scovare realtà di ottimo livello intente non solo a ripercorrere le orme di qualche grosso nome del passato, ma pure a metterci del proprio, offrendo impulso ad una proposta che in tal modo, anche se travestita da abiti un po’ vetusti, si rivela fresca ed accattivante.
Un contributo essenziale alla causa lo sta senz’altro fornendo da anni la piccola ma parecchio agguerrita (ed italianissima) label Heavy Psych Sounds, specializzata in hard rock, stoner, doom e psichedelica, meritevole di elogi per l’aver scovato – tra gli altri – questi ottimi Wedge, trio berlinese autore di un brillante disco d’esordio nel 2015 ed ora giunto con ottimi esiti alla seconda prova da studio.
Multicolore, fascinosa, carica di sfumature, ricca di ispirazione, la proposta del terzetto sulle prime spiazza per poi, passati giusto un paio di ascolti, conquistare e convincere senza riserve.
Un mix vigoroso di sensazioni vintage, suoni low-fi in pieno stile 60 / 70, atmosfere southern e polverosi sussulti rock old-style condiscono una serie di canzoni in cui si rincorrono tutte le principali influenze della band, identificate in nomi imprescindibili come potrebbero essere quelli di Led Zep, Deep Purple ed Uriah Heep, mescolati ad Outlaw, Rolling Stones, Blue Cheer, Vanilla Fudge ed Iron Butterfly, senza scordare un pizzico di prog quale ornamento definitivo di un menù a base di suoni solo all’apparenza demodé, ma in realtà attualissimi e ricchi di vitalità.
Poliedrici ed abili maestri nel variare registro, i Wedge passano dal vetero rock n’roll agile e scattante di “Nuthin’”, “Lucid” e “High Head Woman” tracce odorose di anni settanta come nemmeno un film di blaxploitation (presente “Shaft il detective”? Ecco, alcuni passaggi avrebbero persino avuto senso quale parti della colonna sonora..) alle digressioni lisergiche e vagamente progressive di un autentico pezzone come “Tired Eyes”, un miscuglio di psichedelia, fuzz rock e southern che fa venire alla mente una ipotetica jam session tra i Molly Hatchet ed i Focus.
C’è parecchio da cui farsi catturare in questa nuova uscita della disinvolta band tedesca: molte sensazioni, temi atmosfere in cui addentrarsi poco alla volta, scendendo al di sotto di una superficie che si vuol far intendere come piuttosto semplice, ma in realtà cela struttura, carisma e personalità – senza tuttavia voler assomigliare a nulla di tecnico o “evoluto” – tale da scorrazzare con spontanea e disimpacciata freschezza tra molteplici ascolti.
“Quarter to Dawn”, con quell’improvviso assolo che ricorda tantissimo Santana e la title track sorretta da un Hammond che parecchio sa di Uriah Heep e Vanilla Fudge, sono altri momenti capaci di elevare il valore di un disco che arriva inopinato ed inatteso, ma si ferma nel lettore insospettabilmente a lungo, lasciando quella bella sensazione di genuinità che solo il rock fatto con cuore, attitudine e parecchio estro sa regalare.
Il bello di album come “Killing Tongue”, dopo tutto, è proprio questo. Il sapersi rivelare fresco ed immediato, a dispetto di un presunto stile demodé che, al contrario, è solo un abile camuffarsi.
Charme a profusione, eleganza, bei suoni ed una veste grafica accattivante: i fan un po’ delusi dai recenti Wolfmother dovrebbero, decisamente, farci un pensiero approfondito…