Recensione: Kindly Bent To Free Us
L’ispirazione è finita? Oppure siamo di fronte ad un disco assai ermetico e la cui accessibilità sembra di molto superiore a quanto i Cynic abbiano mai composto nel loro più lontano e recente passato? Non vorrei mai essere troppo complesso nell’esprimere il mio giudizio su “Kindly Bent to Free Us”, terzo loro e quindi vado dritto al punto: non hanno colpito nel segno.
Autrice ad inizio anni Novanta di un disco importantissimo come “Focus”, la band fondata dai talentuosi musicisti Paul Masvidal e Sean Reinert, dopo un lungo periodo di silenzio con i Cynic (ma non con altri progetti, Æon Spoke ed Aghora su tutti) s’è rimessa al lavoro su questo nuovo disco. Essendo solo tre gli album fin qui pubblicati, può essere utile spendere due parole sulla loro evoluzione artistica. Sono partiti nel 1993 con un disco completamente svincolato dai rigidi schemi dell’inarrestabile death metal floridiano di quegli anni a cui, molti, li accostarono come corrente artistica. Sebbene in parte possano aver avuto ragione (ma non discuteremo qui il perché), è altresì vero che “Focus”, quegli stessi schemi così orientati alla violenza sonora, li ha completamente disintegrati proponendo un primo seminale connubio con strutture compositive eterogenee in grado di svincolare i death metal stesso dalla classica forma canzone. Con i Cynic quel neonato e già leggendario death metal veniva assorbito da momenti distesi, da strutture ed articolazioni compositive tipiche del progressive, con una puntatina in ambito fusion nel caso di ‘Textures’, brano raffinatissimo che mise in evidenza le straordinarie abilità tecniche dei quattro. Altri elementi che colpirono per originalità furono le tastiere che, colleghi floridiani Nocturnus a parte, ben pochissimi altri riuscivano a proporre con successo a livello di songwriting e non di mera intro. La voce robotica alternata allo scream dava l’idea di una dimensione stellare e metafisica dell’anima stessa del sound proposto.
Passarono poi gli anni e nel 2008 arrivò, quasi inaspettatamente, “Traced in Air”, capolavoro che, non solo manteneva le radici ben affondate nel cosmo dello stile che fu, ma aggraziava il tutto con quel mood così delicato che aveva caratterizzato qualche anno prima l’esordio degli Æon Spoke, gruppo targato Masvidal/Reinert capace di una sensibile e romantica interpretazione della musica. Una musica nata per esser dedicata a persone ed amici sofferenti.
“Traced in Air” rappresentò quindi per la carriera dei Cynic un picco di elevata ispirazione espressiva. Grandi arrangiamenti furono messi in campo per garantire quei legami che garantissero alla band di poter esprimese tutta se stessa senza snaturare la delicatezza di quanto composto in quel periodo con i citati Æon Spoke.
I brani suonavano brillantemente, illuminati da gusto e ricercatezza melodica, da stile e raffinatezza. I quattro misero quindi a tacere i tanti detrattori della prima ora ovvero quelli che, ben prima dell’uscita, avevano già messo in croce la band. L’accusa? Esser rinata, come tantissimi altri colleghi del contemporaneo, con il solo scopo di vendere copie sulla scia dell’entusiasmo e sull’onda di un momento storico ‘metal’ piatto e privo di idee (e di band capaci…), un momento in cui i vecchi marpioni possono nuovamente riemergere…
Ed eccoci qui. Esce quest’anno “Kindly Bent to Free Us”. Tutto ciò che era presente in passato e che ha reso immortale la band è scomparso. Le strutture, tecniche quanto si vuole, hanno perso calore. La maggior parte delle strutture compositive è fine a sé stessa, immobile, stridente, così come suonano acidi i ritornelli, per nulla in grado di identificare una certa personalità. Nulla resta in mente; ancora peggio, nulla resta nel cuore. Nulla si muove a livello interiore. Quel cosmo che tanto avevano dipinto con il primo songwriting è ora confinato in un buio angolo foderato di metallo chirurgico, asettico, senz’anima. Il fiume di emozioni e di sensazioni eteree trasportato dalle composizioni di “Traced in Air” s’è fermato e, nel caso in esame, è rimasto ben poco, se non un tappeto di spartiti aridi, più utili ad una didattica da conservatorio che ad ascoltatori attenti e recettivi alle dimensioni spaziali dei veri Cynic, quelli che non dovevano ‘costruire’ la musica per venderla, ma l’architettavano per renderla inossidabile allo scorrere inesorabile del tempo.
E non c’è stupenda copertina, né profondi testi che possano valorizzarne i contenuti lirici che giustifichino la carente ispirazione dei brani. Né un’altra brillante prestazione del super bassista e storico compagno d’avventura Sean Malone può dare conforto alla sterile vena poetica qui presente. Nemmeno la produzione aurea e limpida è in grado di abbracciare l’ascoltatore e trasportarlo nei meandri del disco. Purtroppo il songwriting è mediocre, molto ‘studiato’, poco ‘sentito’. Manca l’anima dei Cynic, quelli che fino al 2008, con due soli full-length in quindici anni di carriera, avevano emozionato ed entusiasmato. Manca l’esclusività a cui ci avevano abituati. Speriamo sia stato solo un passo falso… Considerato il tutto: sufficiente. E non aggiungiamo altro.
Nicola Furlan
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