Recensione: King of Everything
Metalcore, djent, hardcore e groove metal. Sono gli ingredienti che, a detta della Napalm Records, compongono, come tasselli di un mosaico, il sound degli ucraini Jinjer, alle prese con il loro secondo album in carriera, “King of Everything”.
Il risultato finale è un micidiale pot-pourri che si può definire pure deathcore, al quale tuttavia occorre aggiungere, anche, il gothenburg metal, che ogni tanto fa capolino dalle tracce del disco. Micidiale, giacché i Jinjer si perdono con una certa facilità in se stessi, sfilacciando indefinitamente il loro chimerico marchio di fabbrica.
Che, per l’appunto, non si è concretato in una forma certa bensì in un nucleo seguito da una lunga scia di particelle luminose. Perché, occorre evidenziarlo, la cantante Tatiana Shmailyuk e i suoi compagni sono musicisti di livello assolutamente internazionale. Bravissimi e talentuosi nell’eseguire alla perfezione le complicate partiture dei dieci pezzi che danno forma a “King of Everything”. Delle piccole stelle, appunto.
Però, se le stelle non trovano ordine all’interno della galassia, allora ciò che ne discende è il caos, la confusione. La mancanza di una guida, cioè. Che, nel caso della musica, è la struttura compositiva che, per adempiere alle proprie funzioni natie di comprensibilità, dovrebbe essere logica e lineare. Cosa che, almeno a parere di chi scrive, nel caso dei Jinjer non è, apparentemente dediti a una sorta di autocompiacimento che impedisce loro di poter essere intesi da tutti.
Naturalmente questo è un peccato, giacché l’arabeggiante ‘Prologue’ ma soprattutto la violenta e brutale ‘Captain Clock’, spettacolare attacco frontale, lasciano perfettamente intendere i talenti con i quali si ha a che fare. Una song come quella appena menzionata, che mostra anche la buona predisposizione alla melodia di classe da parte dei Nostri, dovrebbe fungere da linea conduttrice per l’intero lavoro, talmente è identificativa di uno stile potenzialmente caleidoscopico ma coerente sempre e comunque a se stesso. ‘Words of Wisdom’, in più ai generi all’inizio menzionati, pare addirittura essere technical death metal (‘I Speak Astronomy’), e di quello elaborato bene, cioè con un filo di conduzione percepibile e quindi degno di essere seguito.
Tuttavia, poi, i Jinjer si perdono in loro stessi, continuando a proporre segmenti di grande tecnicismo e discreta arte ma, sempre più, confusi in una forma-canzone che non si riesce a far propria, nemmeno dopo numerosi ascolti. E la… prova di tale irresistibile voglia di far vedere quanto si è bravi è la conclusiva ‘Beggars’ Dance’, una sorta di swing clamorosamente avulso dal contesto.
Una prestazione di gran rilievo esecutivo, quindi quella che i Jinjer svolgono con “King of Everything”. Solo questo, nondimeno. Il resto, a parte alcuni istanti (‘Words of Wisdom’) è noia.
Peccato: la classica occasione persa.
Daniele D’Adamo