Recensione: King of Kings
Nell’impetuoso corso della storia più remota, non tutti gli eventi ebbero la fortuna di essere periziosamente raccolti e trascritti. La storiografia è infatti una disciplina che ha a sua volta una storia, un percorso evolutivo che va dalla mera narrazione alla scienza, e che si protende dalla Grecia antica a Roma, passando per il silenzioso periodo di trascrizione degli amanuensi medioevali fino all’umanesimo e rinascimento, istituzionalizzata nell’illuminismo ed addirittura assurta a movimento dello Spirito durante il romanticismo. Eppure vi è una narrazione più irrazionale ed epica, tra poesia e mito, nelle terre più remote del mondo, tramandata da antiche tradizioni orali. Tra le storie narrate dai bardi e dagli scaldi, vi è quella di Harald Fairhair (850 circa – 933 circa), primo re della Norvegia: un racconto ancora oscuro ed intriso di leggenda, poiché le prime fonti scritte sulla sua vita risalgono a ben tre secoli dopo il suo regno.
Gli scaldi del metal Leaves’ Eyes ci ripropongono pertanto la spettacolare vicenda di Re Harald I (antico connazionale della leader Liv Kristine) in “King of Kings”, sesto disco in carriera per la band – e lo fanno in pieno stile Leaves’ Eyes, tra testi estremamente ricercati, orchestrazioni gothic, intermezzi ed inserti folk e melodie vocali super-catchy.
Una questione di famiglia
Tutto inizia, come da tradizione, con un sogno: “Sweven”. La nascita di un bambino. Il volere degli dèi. La profezia. Una musica lontana, tante voci che si alternano, dai deliri dei profeti ai canti delle tribù vichinghe, e la voce soave della bella norvegese Liv Kristine che ci culla in questa meravigliosa avventura in terra norrena.
Tema della narrazione, il re dei re. “King of Kings”: a soli dieci anni Harald ascende al trono. La titletrack. Dolcezza materna nella strofa dopo una breve prolusione, poi i cori cinematografici di “London Voices” (Star Wars, Il Signore degli Anelli, Harry Potter) prendono il sopravvento per una detonazione di epicità. La stessa che troviamo nel brano successivo “Halvdan the Black” – un flashback per spiegare un tanto precoce avvicendamento al trono. Il padre di Harald, Halvdan, figlio di Odino, a seguito di un banchetto viene reclamato dalle acque di un lago ghiacciato, che stava attraversando assieme ai suoi uomini. Il brano si fa di nuovo un inno corale, dove il growl di Alexander Krull reclama a gran voce il defunto re. Scelto come primo singolo dell’album, è disponibile un videclip del brano.
Il climax ascende imperioso nel secondo singolo “The Waking Eye”. Qui anche il videoclip si fa finalmente narrazione: una premonizione, due sogni sovrapposti ed un futuro re, interpretato in video (ebbene sì!) dal figlio di Liv Kristine ed Alexander Krull: il giovane Leon. Nella clip lo stesso Krull interpreta la parte di Harald Fairhair da adulto. Tutto in famiglia, insomma, per un brano di nuovo epico e melodico che completa con eleganza il trittico d’apertura.
Il primo metallaro della Norvegia unita
Cala il sipario. In lontananza un banchetto, una festa. Delle cornamuse per “Feast of the Year”. La spensieratezza dura poco, perché all’attacco delle chitarre e dopo un giro di basso riparte il notevole mix tra folk e power metal “Vengence Venom”: un tentativo di avvelenamento nei confronti di Re Harald, il coplevole è un sami che finisce in catene. Ma il re decide di liberare il lappone ricevendo in cambio rispetto, fedeltà e la protezione degli dèi della natura: è bello, è nipote di Odino ed è pure magnanimo.
Viene il momento dell’amore, della promessa “Sacred Wov”, in cui una batteria indiavolata prelude alla guerra. Harald chiede infatti la mano della giovane principessa Gyda Eiriksdottir di Hordaland – ed ella risponde che avrebbe accettato la proposta solo una volta che egli fosse diventato l’unico re di tutta la Norvegia (credevate forse che gliel’avrebbe smollata subito?), all’epoca disunita e composta da numerose tribù vichinghe. La promessa solenne: Harald avrebbe lottato e fino al raggiungimento dell’obiettivo, non avrebbe mai dovuto tagliare barba e capelli. Un metallaro senza mezzi termini.
Harald inizia la sua guerra contro tutti coloro i quali non accettano la sua corona. Ad egida della sua avanzata sono gli incantesimi dei sami citati in precedenza, le spade sollevate al cielo e gli scudi s’infrangono nel clangore della battaglia di “Edge of Steel”, con la voce della Kristine che naviga e cavalca a fianco di quella di Simone Simons (Epica). L’eroe continua ad avanzare mentre la battaglia finale si fa più vicina.
Le spade nella roccia
“Haraldskvæði” (o Hrafnsmál) è un poema frammentario, attribuito a Þórbjǫrn hornklofi (Torbjørn Hornklove in norvegese moderno), scaldo alla corte di Harald Fairhair. Nel poema, così come nel brano, un corvo ed una valchiria discutono del valore e delle azioni valorose del Re. Ascoltate voi tutti (“Harken ye all”), ammonisce il refrain in questo breve brano acustico che presenta i Leaves’ Eyes in versione Skyrim, con i suoi vocioni battaglieri in lontananza che si levano, assieme al bisbigliare delle due creature sull’eroe che giunge vittorioso.
Punta di diamante dell’intero “King of Kings”, l’ultimo scontro di Harald in “Blazing Waters”: la grande battaglia di Hafrsfjord ha inizio! Cori, canto e controcanto ed il battere e levare di un tamburo, quand’ecco il riff avanzare impetuoso: attenzione alle acque fiammeggianti (Lo the blazing waters)! La battaglia dei tre eserciti infuria nella strofa in growl, mentre la soprano rimarca l’ammonimento. Interviene anche l’ospite Lindy-Fay Hella (Wardruna) in una breve strofa. La batteria si fa più serrata, arriva anche l’assolo di matrice power ed il riffing progressivo per sette minuti di battaglia che coinvolgono ed al contempo fanno quasi sorridere, al pensiero delle interminabili scorribande di certi film.
Il concept si conclude con “Swords in Rock” (Sverd i fjell), tre spade incastonate sul fiordo, monumento eretto dallo scultore Fritz Røed, inaugurato nel 1983 in onore della battaglia di Hafrsfjord dell’anno 872. Il brano conclude con una divertente melodia folk metal l’intera epopea del re, smorzando con la dovuta allegria lo spannung narrativo ed epico che aveva contraddistinto la battaglia che ha visto Harald Fairhair uscire vittorioso, unificando così le terre di Norvegia ed ottenendo la mano di Gyda.
Dopo l’ottimo “Symphonies of the Night”, i Leaves’ Eyes dimostrano per un’altra volta la grande maturità artistica raggiunta proponendo una buona varietà di soluzioni musicali e compositive, sempre fedeli alla centralità della melodia nelle linee vocali della Kristine che magicamente riescono sempre nel loro intento, sin dai tempi di Elegy e Legend Land. Le sezioni ed i backing in growl di Krull aggiungono profondità, i cori conferiscono epicità mentre gli arrangiamenti strumentali e le ritmiche sono sempre puntuali per quanto mai troppo elaborati. L’ascolto non ne risulta pertanto appesantito, nonostante l’apporto sinfonico, corale, orchestrale ed etnico, tanto che quasi tutti i pezzi filano talmente lisci durante l’ascolto da risultare ai limiti del radiofonico: ottimo e sapiente il senso della misura tra le varie componenti. In meno di quarantacinque minuti la narrazione prende vita come un’esperienza genuina ed onirica, capace di trasportarci in terre lontane, tra scaldi, battaglie, vichinghi, spade e profezie, fino all’incoronazione del primo Re della Norvegia unita: Harald Fairhair, “King of Kings”.
Luca “Haraldsteen” Montini
Sverd i fjell (Swords in the Stone), opera di Fritz Røed, 1983
p.s. A differenza dei predecessori, per ovvie ragioni questo disco batte bandiera norvegese in luogo di quella tedesca. Harald was here.