Recensione: Kingdom of the Grave
Debut-album per i texani Sigil. Niente di che, si potrebbe supporre. In fondo, un debut-album è solo il primo serio strappo dall’anonimato. E, in effetti, non c’è nulla di straordinario, in “Kingdom of the Grave” ma se non altro esso rappresenta l’ennesima dimostrazione che, da parte delle nuove generazioni, non si placa la tendenza di proporre death metal ortodosso. Tradizionale, legato strettamente ai dettami natii.
Talmente ortodosso da esserlo troppo. “Death Unreal”, l’opener-track, difatti, si caratterizza per un break centrale assai simile a quello di “Angel of Death” degli Slayer. Non che ciò sia un male ma senza dubbio l’originalità va a farsi benedire. In più, non mancano lugubri campane a lutto e tematiche cimiteriali, a sgranare il rosario del dejà-vu.
Insomma, già a ‘Even the Gods Will Burn’ comincia a far capolino una certa tediosità che sicuramente non mette in buona luce, pardon buio, “Kingdom of the Grave”. Il sound non è da buttare: è bello corposo e più che stantio per la bisogna, tuttavia, anche per esso, il discorso non cambia: «già sentito!». La parabola discendente, già partita praticamente da zero, continua imperterrita a questo punto… sottoterra, con un’altra chicca al contrario del calibro di ‘Lick the Blade’. Cioè, banalità e mancanza di tutto. Voce solito growing, chitarre efficaci ma senza verve, basso mono-nota, drumming elementare.
Con la title-track, improvvisamente e senza alcun preavviso, i Sigil alzano al volo l’asticella della qualità e della bravura compositiva, quasi se “Kingdom of the Grave” fosse uno split-album e a suonare fosse un altro ensemble. Invece, Alex Citrone e compagni iniziano a macinare death metal marcissimo e letale. Il ritmo prende vita, l’aggressività aumenta vertiginosamente, i riff si arrotano incandescenti l’uno sull’altro. Accelerazioni, decelerazioni, ripartenze, soli serrati e scarificatori… gran mood malsano! Davvero sembra sia entrata in scena un’altra band. ‘Summoning Hate’ è uno sfascio totale, fioccano i blast-beats, i soli lacerano la carne, la sequenza degli accordi diviene finalmente ricca di personalità e di decisione, di fede nei propri mezzi.
Una vera e propria trasfigurazione, rispetto allo scialbo piattume iniziale.
‘Strange Aeons’, e giù schiaffoni in piena faccia a palmi aperti. La batteria detta i tempi comunque sempre semplici e lineari, però con un po’ di variazione all’interno dei brani. La doppia cassa fa il suo effetto e l’insieme assume finalmente la pienezza del death metal. ‘Bloodvisions’ è un’altra mazzata fra capo e collo, ‘Death Won’t Kill Me’ è un mid-tempo acido e letale. Molto accessibile ma non per questo privo di fascino.
Probabilmente “Kingdom of the Grave” raccoglie pezzi composti in tempi diversi, essendo un full-length di debutto – la band si è formata da quattro anni circa. Quindi, privo della necessaria continuità stilistica per spiccare il salto. Alla fine, si tratta di una sufficienza meritata ma nulla più. Per comprendere di più sulla carriera dei Nostri, allora, non si potrà che aspettarne il seguito.
Daniele “dani66” D’Adamo