Recensione: Kingdoms Disdained

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 30 Settembre 2020 - 15:01
Kingdoms Disdained
Band: Morbid Angel
Etichetta: Silver Lining Music
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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65

Chiunque nella vita vive inaspettatamente giorni felici, accidentali e indimenticabili, un periodo temporale bello e indimenticabile anche se di breve durata, ma che poeticamente si tenderà a considerarlo un paradiso perduto.

Un paradiso perduto in senso metaforico anche nell’accezione negativa dell’espressione, perché magari saranno proprio giorni persi, periodi abbandonati lungo l’asse del tempo e mai più ritrovati, anche tentando spesso, e talvolta malvolentieri, un ultimo colpo di reni ancora per poterli afferrare e poterli rilucidare anche per ricordare il semplice “effetto che fa” e magari auspicando che il mondo così torni a essere migliore e, in pieno sincronismo, la propria arte ancora appetibile.

Probabilmente è in questo scenario che s’inquadra la rentrée dei Morbid Angel nella storia della musica con l’album Kingdoms Disdained del 2017; un rientro, dopo sei anni da Illud Divinum Insanus, che non rappresenta un ritorno di fiamma verso quel Death Metal del quale sono considerati una pietra miliare e che lancia messaggi, a livello globale, che dovrebbero far riflettere.

Purtroppo la nostalgia non è solo una brutta bestia, ma anche un’inesauribile fonte di ritorni nel mondo della musica, prevedibili o sorprendenti, che però, in maniera diabolica, possono rinverdire fasti o soffocare velleità che si traducono, malinconicamente, in una fredda constatazione che sarà durissima elevarsi ai livelli che il passato ha espresso.

I Morbid Angel nascono a Tampa, e probabilmente questa è una condizione necessaria e sufficiente per fare della “forza”, dell’“impatto” e della “violenza” il proprio marchio di fabbrica se pensiamo che nella cittadina californiana hanno trovato i natali anche i lottatori Brutus The Barber Beefcake, Hercules Hernandez e Jim Neidhart, e proprio nella “forza”, nella “violenza” e nella “cattiveria” sonora la band americana ha intinto il proprio stile e il proprio operato fino a consegnare alla collettività dei capolavori Death Metal, del quale sono padri putativi, del calibro di Altars Of Madness, addirittura del 1989 quasi a voler issare una bandiera nell’avventuroso mondo del genere, Blessed Are The Sick o Covenant. Verosimilmente questo debutto con il botto è stato un limite per la band perché da Formulas Fatal To The Flash fino al già citato Illud Divinum Insanus il livello generale degli album della band si abbassa notevolmente, non sono stati pienamente capaci di mantenere uno standard qualitativo alto che era, tranquillamente, nelle loro capacità.

Sorvolando sui diversi cambiamenti di line-up, che inesorabilmente si scaricano negativamente sull’amalgama di un gruppo inficiandone i risultati, non è difficile notare come i Morbid Angel non abbiano sempre tenuto fede alle aspettative dei fan.

Kingdoms Disdained, pur essendo un disco poco ispirato, rappresenta comunque una decisa risalita per la band di Trey Azagthoth e soci; un lavoro classico senza specifiche evoluzioni, che si dipana nella loro comfort zone, senza fronzoli, che mira a redimere le proprie colpe per cercare di riportare la loro reputazione in zone più nobili e lucenti.

I Morbid Angel nel corso della loro carriera hanno dimostrato di non voler scendere a compromessi annullando, nel nome di una coerenza talvolta tipica nel genere, le capacità di rinnovamento pur rimanendo nell’alveo delle proprie peculiarità, come invece hanno saputo fare magistralmente altre band.

Con Kingdoms Disdained ci troviamo al cospetto di un album dalla produzione non proprio impeccabile, dove i suoni non sono distinguibili e la batteria emerge fortemente rispetto agli altri strumenti, ma questo, considerato il coinvolgimento di Erik Rutan, forse è voluto, per riabbracciare idealmente le origini del genere e della loro storia e per far emergere quella “violenza” che è uno dei punti di forza di tutto il disco. Anche musicalmente, nonostante le loro indiscutibili qualità, l’album non riserva grosse sorprese, molti passaggi sono scontati, poco chiari e, cosa importante, in alcuni momenti si sente quella mancanza di alchimia che rende godibile un disco. Un disco suonato talvolta in modo impersonale e con poco trasporto; per poterne comprendere le specificità è necessario riascoltarlo molte volte, altrimenti si avrà la solita sensazione che il disco “non gira”.

Kingdoms Disdained rispetto all’ultima produzione della band americana è comunque superiore, ma i loro lavori migliori sono altri. L’attacco del disco, Piles Of Little Arms, è prepotente e brutale e indica chiaramente e senza possibilità di smentita quello che sarà lo sviluppo dell’intero album, in alcune venature del brano si odono echi Black Metal (presenti anche in For No Master) che conferiscono al brano un fascino particolare. Un fascino martellante e violento che emerge dall’ascolto di Garden Of Disdain e dalla successiva The Righteous Voice. Anche se probabilmente l’apice dell’intero disco è rappresentato dai due brani finali, From the Hand of Kings e The Fall of Idols, anche l’accoppiata Architect And Iconoclast e Paradigms Warped non è malvagia, con un effetto, in quest’ultimo brano, tendente, anche se lontanamente, al Doom.

In questo album anche i testi tendono la mano alla tradizione iniziale dei Morbid Angel, quando a farla da padrona erano tematiche anti-religiose e fasciste, infatti saranno diversi i riferimenti a Dio in chiave non proprio canonica, basti pensare a “…They’ve come to make us civil / Their gifts as ransom / Their God comes with a cost / We must give up all / For prayers in a foreign tongue / To a foreign throne” (Piles Of Little Arms) o a “No God will claim this garden / Too sickening to the eyes to see this” (Garden Of Disdain).

Volendo approfondire l’album, l’opener Piles Of Little Arms è pura violenza. L’intro strumentale e il verse in realtà non legano moltissimo (a prova del 4 “fuori” nella ripresa ad opera di Scott Fuller), ma ad ogni modo siamo nel bel mezzo di una “tempesta di granito”.

D.E.A.D. ha per certi versi la stessa struttura, intro “a parte”, e poi ancora si ascolta la violenza inaudita della quale il combo rappresenta un meraviglioso archè.

Il riffing di Trey Azagthoth è quanto mai azzeccato (quello in pentatonica) e si denota una certa vena nostalgica per le vecchie sonorità. Di questo ne è la prova, come già anticipato, la produzione stessa a opera di Erik Rutan; questo platter suona malsano e cupo. Le chitarre sono gonfie e incredibilmente secche, il drumming alquanto confuso e privo di overheads, i fusti sono fin troppo presenti, ma nel complesso il sound è molto “Morbid Angel”. La voce di Steve Tucker si mostra da subito parte integrante del wall of sound, una prestazione finora convincente.

Garden of Disdain è la conferma della “ricetta” di questo Kingdoms Disdained. L’attacco è devastante, ma purtroppo fuori dal contesto della canzone stessa, perché si ha l’idea di qualcosa messa lì per caso e questo rappresenta un vero peccato perché i primi 12 secondi della canzone in questione sono davvero pura magia.
Inizia a questo punto del disco un po’ a pesare l’assoluta monotonia in fase di composizione fatta da idee scarne e mai valutate a dovere, non vi è nessuna evoluzione in questi primi tre brani e come se non bastasse le parti soliste del solito (grande) Trey Azagthoth in Garden of Disdain sono completamente inascoltabili (nel senso letterale del termine: “inudibili”).

Una boccata d’aria è la successiva The Righteous Voice, qui qualcosa inizia ad andare per il verso giusto. La band riesce a dar prova che quando è il momento giusto non ce n’è per nessuno. Un brano irruento, corposo, a tratti epico. Davvero un grande colpo di reni per l’“angelo morboso” ed è intrinseca nelle note d’apertura un’ispirazione fuori dal comune. Dietro le pelli Scott Fuller ha la possibilità di rendere più variegato il suo lavoro finora comunque indiscutibilmente impeccabile. Senza dimenticare il grande Trey! Finalmente il chitarrista Death Metal (secondo qualcuno) n.1 è alle prese con quello che sa fare meglio, il suo solo con tapping sul finale è davvero il suo marchio di fabbrica (per giunta ben udibile questa volta), però dura troppo poco questo momento di poesia.

Abbiamo prima accennato alla bontà di Architect and Iconoclast, anche se si cade nella banalità con l’ascolto delle prime note. La batteria copre tutto, soprattutto la cassa è una presenza fastidiosa (nel mix) che conferma purtroppo il lavoro non proprio eccelso, ma forse giustificato, di Rutan.

Paradigms Warped non apporta nulla di nuovo al platter, buone idee, come già scritto, ma nulla di trascendentale e qualche “battuta” di fama per il basso di Steve Tucker. Brano che si muove (o non si muove) sulle medesime cellule ritmiche con un finale davvero osceno (termine che mai avremmo pensato di utilizzare in una recensione di un disco dei Morbid Angel).

The Pillars Crumbling e For No Master scorrono via senza infamia e senza lode anche se quest’ultima acquista qualche punto in più in potenza.

Declaring New Law (Secret Hell) vede la presenza del talentuoso Dan Vadim Von come special guest alle lead guitars (entrato in line up subito dopo l’uscita di Kingdoms Disdaine). L’attacco è purtroppo il punto più scontato e ripetitivo di tutta la release. Un gioco pastoso e quanto mai privo di pathos tra i tom di Fuller e il palm muting sugli ottavi di Azagthoth sui versi “Bring before me anyone who opposes my name, Bring before me any voice that speaks in disdain of me, Bring before me any force that would challenge my will, Bring before me every vessel that is filled with doubt”. L’intero brano non decollerà mai purtroppo, neppure un guizzo sul finale. Si avverte della stanchezza di fondo, quasi l’essere portabandiera di un intero genere si trasforma in fatica fisica e psichica. La lucidità dei bei tempi andati sembra appunto un lontano ricordo, nonostante la voglia disincantata del combo di portare avanti la tradizione.

A dispetto delle nuove tendenze discografiche, che vedono le song più rappresentative e accattivanti in prima posizione lungo la tracklist, qui accade tutto l’opposto (come per i veri artisti, un nome su tutti i Death): siamo di fronte al momento più alto dell’intero disco con le conclusive From the Hand of Kings e The Fall of Idols. La prima è ispiratissima, una tempesta spaziale giusto proveniente dalla mano del Re. L’alchimia della band è finalmente giunta all’apice. Ogni singolo passaggio strumentale merita tutta la pazienza che abbiamo avuto fino a questo momento. Anche lo stesso Steve Tucker al microfono sembra rinato, tutt’altra cosa i suoi duetti con le tremolo parts della Universe di Trey. La seconda è una indefinita cascata di macigni che condanna “L’idolo che desidera la pace ad ogni costo”. Blasfema e mastodontica, claustrofobia allo stato puro: “Destroy all statues standing, Built before you reign, Tear them down in your name, Disregard all existence, All kings before your time, They shall all be erased”. L’axe man Trey Azagthoth è qui in gran spolvero, il suo Floyd Rose emana lamenti agghiaccianti con gli armonici sul finale.

Nel rispetto della tradizione dei Morbid Angel, che usano intitolare i loro album seguendo un ordine prettamente alfabetico, ci si augura che per il capitolo della lettera “L” decidano di ripartire da quanto di buono espresso nella parte finale di questo discusso Kingdoms Disdained.

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