Recensione: Kings and Queens
Recentemente è stato pubblicato un libro intitolato “Non solo tette in un corsetto: Donne nel Metal”, in realtà ne esiste solo una versione inglese al momento, ma pensavo valesse la pena di tradurlo. Si parla dei problemi femminili nelle metal band, l’equivalente di soldato Jane nel feroce mondo del metallo. C’è un nesso con i Leah? No… anzi si!
Quel libro è stato finanziato attraverso una campagna di crowdfunding (si insomma una colletta, detto tra noi) e così è stato per Leah, la cantante e fondatrice nonché unico membro effettivo del gruppo. Scrive, compone, arrangia e fa la mamma. O meglio prima di tutto i piccoli. Dimenticavo… è soprattutto una cantante: e che voce! Ricorda quella di Enya, la tipa che canta “May it be” e ancora di più il brano cantato in Sindarin (l’efico secondo Tolkien) intitolato “Aniron” nella OST di “Lord of the Rings, The Fellowship of the Ring”. Affinità anche musicale, visto che entrambe amano la musica con influenze folk.
Leah però sin dal gli esordi vuole essere metal. Una mamma canadese di metal celtico folk. Io non ci provo a fermarla, nemmeno per sbaglio. E gli esordi di “Of Earth & Angels” sono epici, sinfonici muovendosi con grazia tra distorsioni e note celtiche. Seguiranno due Ep, uno con tre canzoni natalizie del 2012 intitolato “Let All Mortal Keep Silence”, l’altro del 2013 “Otherworld” in cui c’è da segnalare la partecipazione di Eric Petersen chitarrista dei Testament qui alla voce nella quinta traccia “Dreamland”.
Poi silenzio. Ci fa sapere da facebook che mica è facile fare tutto, comporre, pannolini, crowdfunding…e trovare musicisti per il suo progetto. Così Leah stana Timo Sonders, ottimo chitarrista dei Delain, lui stesso produce l’album e recluta l’ex batterista dei Delain stessi, Sander Zoe che assieme al bassista Barend Courbois (da gennaio ufficialmente membro dei Blind Guardian) ritma i passi della banda.
Prende così vita “Kings and Queens”. Settantotto minuti di note che rimbalzano tra evocazioni ancerstrali, distorsioni fluttuanti e una voce ad allungarsi negli spazi, espandondosi e ritirandosi per creare mondi intrisi di oscurità e ombra. Leah narra l’epicità di quella terra di mezzo che nella sua vastità diviene esplorabile solo in sinfonie metal. Ed è mirabile esempio di vastità sinfonica “Palace of Dreams”, oscura nel suo incipit, ad un passo dal black metal in quanto a velocità, impatto di batteria e chitarra per poi trovare pace solamente in un piano che lascia il passo a Leah in apparenza dolce, eterea per poi insinuarsi in note oscure. La melodia del ritornello si mostra dapprima immediata, poi i cori la scompongono. Da qui in avanti si susseguono cambi di tempo, accellerazioni improvvise, cori e suoni che ritornano illudendoci dell’infinito.
Il singolo “Enter Highlands” si apre con riff grevi, trascinati in basso dalla batteria e da suoni sinfonici. Quando il muro distorto crolla si materializzano vocalizzi in spirali quasi provenissero da altri mondi. Fantasmi di civiltà perdute. Così le voci seguono Leah nella sua multiforme cavalcata sonora.
“Save the World” pur non rinnengando lo stile sinfonico ed epico introduce elementi diversi, prendendo l’avvio da un stacco folk e sconfinando in territori diversi, come se al di sotto della sua voce scorresse un oceano di sogni ricomposti in frammenti di mondi antichi e innominabili. Note oscure. In bilico tra l’infinita eleganza di Enya e lo spettrale incedere dei Portishead. Riff, soli e una batteria pesante, veloce. Tutto suona maledettamente metal.
Così le altre tracce si muovono in bilico tra vocalizzi eterei e partiture distorte che si nascondono come oscuri nubi elettriche per poi apparire a volte leggiadre, a volte più appesantite da passaggi di batteria possenti; e questa formula che ricorda spesso i Delain, con una voce meno versatile ma più eterea, funziona in particolar modo in alcuni brani, come “Angel Fell”. Gli angeli qui in realtà diventano melodia e coro in dialogo con la voce sinuosa e ambigua di Leah.
In “This Present Darkness” c’è tutto: riff, orchestrazioni, batteria pesanti e quella voce elegante scandisce le melodie con misura, perchè muoversi nell’oscurità comporta rischi e quindi necessità di rigore.
In “Arcadia” il canto gregoriano apre e chiude le danze di una canzone che è manifesto di intenti. Melodie, riff e voce puro Leah sound.
Altri brani denotano melodie meno marcate (“Alpha e Omega”, “In the Palm of your Hands”. “There is no Farewell”, “The Crown”), diventando così sottofondo alle mie divagazioni mentali del tipo: ho spento la luce a casa? Meglio farla subito la spesa? Ma quella l’ho già vista… Sveglia! Si, dicevamo… se la leggerà mai nessuno questa recensione? Non esattamente. Alcuni brani vi accompagneranno con discrezione, una colonna sonora discreta mai troppo invadente.
Chiude l’album: “Siuil a Run (acoustic version)”, una cover di una canzone della tradizione irlandese.
Di tempo ne ho trascorso assieme a Leah. E’ stato sempre bello?
A volte. In genere pur essendo ben suonati e cantati i brani dell’album si aggirano attorno i sei minuti di durata, prolungandosi e forse disperdendosi. Sindrome che ha colpito parecchi film usciti negli ultimi anni. Chi ha detto lo Hobbit? Non solo. Se un film non lo fai almeno di due ore e trenta sei uno sfigato a Hollywood. Ecco “Kings and Queens” ha quel problema lì, a volte esasperato da atmosfere e interpretazione del cantato molto simili per tutta la durata dell’album.
Però a volte è stato bello seguire Leah in quelle fughe oniriche fatte di lampi distorti, cori evocativi e melodie oscure.
Consigliabile a chi piacciono i Delain con sfumature folk e un cantato che ricorda Enya riletta alla Liv Kristine, voce dei Theater of Tragedy.