Recensione: Kings in the North

Di Fabio Vellata - 29 Giugno 2021 - 0:01
Kings in the North
Band: Crowne
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2021
Nazione:
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74

Moltissime aspettative, nomi garantiti e sicuri, promozione di alto livello.
Un disco quello degli esordienti Crowne, che sin dall’annuncio si è prefigurato come un sicuro pretendente ad un ruolo di primo piano tra le uscite più significative dell’anno.

Di alto potenziale l’armamentario messo in campo, formula trasversale che, con moltissima piacioneria ed un bel po’ di astuzia, tenta di strizzare l’occhio ad un pubblico possibilmente ampio, allineando solido hard rock, melodie AOR e spunti nemmeno troppo velati di derivazione power.
Il profilo poi, è quello del supergruppo di ispirazione nordica: Alexander Strandell (Art Nation), Jona Tee (H.E.A.T.), John Levén (Europe), Christian Lundqvist (The Poodles) e Love Magnusson (Dynazty) potrebbero rappresentare – giacché siamo in frenetico clima di europei – una sorta di selezione scandinava del rock melodico nell’accezione più ampia del termine.

Niente di meno che eccellenza assoluta via, siamo schietti.
Ed un risultato inferiore al massimo consentito sarebbe stato un mezzo fallimento, diciamolo altrettanto chiaramente.
Ecco: forse proprio per l’hype notevole generato dal progetto Crowne nei mesi scorsi (in noi, ma a quanto pare, anche in una buona fetta di pubblico attenta alle uscite del genere) che, al termine di una sessione di ascolti lunga, approfondita, reiterata e minuziosa, non possiamo fare altro che dirci un pizzico delusi dai risultati.

Kings in the North” è notevole, scorre, si ascolta volentieri. Senza dubbio.
La voce è inattaccabile, i singoli musicisti spaventosamente esperti e quotati per poterli anche solo appuntare in qualche modo. I suoni non mentono e parlano di livello stellare.
Però, che guaio. Dopo tutti questi giri ripetuti di lodi sperticate, quello che rimane in memoria è tutto sommato poco.
Qualche buon ritornello, un paio di cori efficaci. Non molto altro.
Un album che partiva per conquistare consensi a mani basse, sembra, infatti, zoppicare proprio in quella che dovrebbe essere invece la pietra angolare su cui poggiare un ipotetico successo: il songwriting.
Le canzoni, pur in un contesto di diffusa buona qualità, appaiono talora un po’ troppo “normali”, di maniera, senza grossi guizzi d’estro e fantasia. Un compito svolto con perizia e bravura, che però offre l’idea di avere poca “anima” e – nel tentativo di non sbagliare l’obiettivo – non rischia mai.
Ne esce così un prodotto deliziosamente suonato e confezionato, eppure un po’ freddo e scarico a livello emotivo.

Mai la percezione di un brivido profondo o l’idea di effettiva “grandezza” riesce ad affacciarsi lungo le undici tracce. Fascinose le melodie epiche di “Perceval“, le atmosfere notturne ed avvolgenti di “Mad World“, le venature pop di “Sum of all Fears”, il ritornello gagliardo di “Set me Free” (forse il vero momento “meglio” o superiore del cd) ed il rigurgito di rock ruggente scolpito in “Make a Stand”.
Tutto ben fatto, costruito con stile. “Mirato” con cura al fine di cogliere appieno il gusto degli ascoltatori.

Epperò alla fine siamo un po’ combattuti.
Bello, sì. Tuttavia l’idea di aver assistito ad un film già visto, assemblato artatamente e con poca anima continua a pervadere i sensi.
La voglia matta di piacere, sommando H.E.A.T, The Poodles e Art Nation, alla fine, è stata forse il vero “peccato originale” del progetto Crowne.
Un limite insondabile che ha zavorrato l’opera prima impedendole di andare davvero “oltre” come in tanti si attendevano.

Un viaggio con il pilota automatico che non reca sorprese, accompagna con educata benevolenza, offre panorami gratificanti e corrobora lo spirito.
Ma non lascia mai a bocca aperta, non sorprende nei colori mai troppo accesi e non regala scatti realmente memorabili.
Di quelli che, anche a distanza di anni, torni ad osservare, ti ci perdi dentro e ti fanno rivivere il viaggio daccapo, come fossi appena decollato…

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