Recensione: Knock’em Out… With a Metal Fist

Di Stefano Usardi - 27 Giugno 2016 - 0:00
Knock’em Out…With a Metal Fist
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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78

Piacevolissima scoperta questi Elm Street, quartetto di scavezzacollo australiani (da non confondere con l’omonimo gruppo della provincia di Bergamo) costituito da Ben Batres alla voce e chitarra ritmica, Aaron Adie alla chitarra solista, Tomislav Perkovic alla batteria e Nick Ivkovic al basso. I nostri, dopo l’esordio “Barbed Wire Metal” del 2011, giungono oggi al secondo album, dal sintomatico titolo “Abbattili…con un pugno di metallo” e presentato graficamente da una  copertina ignorantissima ad opera di un signore che si chiama Ken Kelly. Fanno Heavy Metal, gli Elm Street, di quello che non si fa tante paranoie sulla purezza del genere e non esita a sporcarsi le mani per centrare il bersaglio nel modo più diretto possibile: tanto per chiarire, in questo caso il bersaglio è la bocca del vostro stomaco. Musica energica e nerboruta, dunque, ma senza mai scadere nell’inutile cacofonia: la melodia non manca praticamente mai in questo album, ed anche la voce al vetriolo di Ben, sorta di Mille Petrozza d’oltreoceano, alla fine non stona (quasi) mai.

Un sognante arpeggio di chitarra apre le danze con la debordante “Face the Reaper”, giocata tutta su un classico riff heavy e una batteria quadrata su cui si adagia il cantato furioso di Ben. Il pezzo scorre splendidamente e senza intoppi, tra brevi accelerazioni ed improvvisi squarci melodici, per poi rallentare e chiudersi in modo più scandito cedendo quindi la scena alla tellurica “Kiss the Canvas”, che con i suoi 3:48 è il brano più corto del lotto. Come la precedente, anche questa canzone è giocata su riff classicissimi e un ritmo battagliero: echi di death melodico si fanno strada qua e là, soprattutto grazie agli intrecci delle due chitarre, mentre nel finale al fulmicotone si chiude idealmente il cerchio riproponendo il riff iniziale. Gioiellino. “Will It Take a Lifetime”, invece, sembra prendersela un po’ più comoda: niente paura, però, perché se è vero che il brano è leggermente meno furioso dei due che l’hanno preceduto è altresì vero che si tratta di un altro gran bel pezzo, in cui il cantato abrasivo di Ben si innesta su un andamento più anthemico, caratterizzato da schegge di melodia sparate senza soluzione di continuità e un bell’assolo che prelude la sfuriata finale.
Stesso discorso si può fare per la successiva, “Sabbath”, che all’inizio sembra prediligere  un riff più scandito, salvo poi cambiare idea e trasformarsi in una cavalcata arrembante benedetta da un ottimo ritornello molto melodico. Bello anche l’intermezzo più atmosferico che introduce un assolo rilassato e sognante, prima del ritorno ai tempi più serrati che ci conducono alla successiva “Heavy Mental”, anch’essa sorretta da un riff che più heavy metal non si può. In realtà questa canzone, pur nella sua rude immediatezza, risulta la meno interessante tra quelle finora ascoltate: se però tenete presente che le tracce precedenti compongono un autentico poker d’assi, capirete che anche questa “Heavy Mental”, pur rappresentando una leggera flessione, è comunque una canzone assolutamente godibile e ottima per scapocciare ad un concerto: un po’ troppo semplice, forse, ma sicuramente efficace.
È l’ora di “Next in Line”, in cui il cantato furibondo di Ben volteggia su un tappeto sonoro più quadrato, inframezzato da rapide impennate strumentali come quella che introduce l’assolo molto sanguigno della seconda metà del brano. Inutile dire che anche questa canzone metterà alla prova più di una colonna vertebrale durante i concerti. “Heart Racer”, per conto suo, inizia in modo non proprio spettacolare, con un riff che sa molto di rock stradaiolo facile facile, e invece durante il suo sviluppo qualcosa scatta e dalla metà in poi si trasforma in una canzone di tutto rispetto, con ottime aperture melodiche e un finale che, nella sua banale semplicità, definirei sontuoso. “S.T.W.A.” è un semplice intermezzo strumentale, abbastanza evocativo ma francamente superfluo, che serve solo a introdurre la suite da quasi dodici minuti “Blood Diamond”. Qui devo fare una premessa: gestire un tale minutaggio per una singola canzone non è mai semplice, il rischio di ritrovarsi per le mani un semplice collage di brani diversi è sempre in agguato, e devo ammettere che anche in questo caso il sentore è quello. La traccia affianca momenti esaltanti a passaggi troppo fuori contesto (si veda ad esempio il netto stacco a metà del brano che introduce la lunga escursione strumentale o l’arpeggio finale, che sembra appiccicato lì senza alcun nesso logico) ma va detto che, dopo qualche ascolto, la sensazione di “arlecchino musicale” si attenua e ci si gode la canzone, che comunque ha il pregio di non stancare mai nonostante la sua lunghezza non indifferente.
Leave It All Behind” ha il compito di chiudere l’album: un epilogo melodico e sognante che s’inasprisce nella sua seconda metà, per poi chiudersi su note più solenni e trionfali. Purtroppo, lo devo dire, quella che sarebbe potuta essere l’ennesima piccola gemma di questo album viene invece affossata da Ben, che abbandona il suo cantato furioso per tentare un approccio più malinconico: un tentativo ammirevole, ma il risultato finale lo fa somigliare a una brutta copia con la raucedine del mai abbastanza rimpianto Quorthon (genuflessione) di Twilight of the Gods. Anche dopo ripetuti ascolti, e per quanto mi sforzi, non riesco a non considerare questa chiusura un’occasione mancata, ma tengo a precisare che ciò non inficia assolutamente (o comunque non più di tanto) il valore di un album sanguigno, passionale e, per quanto mi riguarda, decisamente sopra la media. Alla fine di questo “Knock’em Out…With a Metal Fist” la soddisfazione e un’appagante sazietà si fanno strada inesorabili, e la tentazione di pigiare di nuovo play è un ottimo segnale del fatto che questi ragazzi abbiano fatto centro. Ottimo lavoro.
 

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