Recensione: Koloss
Quando ogni album della propria carriera è, più o meno, un capolavoro e, addirittura, il proprio stile dà seguito a un genere vero e proprio, dotato di autonoma personalità – il djent – , è chiaro che l’uscita di un nuovo full-length rappresenta un momento carico di tensione e, soprattutto, pieno di aspettative e di pressioni psicologiche.
I Meshuggah, però, di tutto ciò paiono farsene un baffo tirando imperterriti per la loro strada, non badando a niente e a nessuno. Quattro anni da “ObZen” non sono poi così pochi, tuttavia dopo qualche nota la sensazione che si percepisce è chiara, distinta: “Koloss”, la neonata creatura, suona meshugghiano al 100%. La smisurata classe posseduta da Jens Kidman e compagni ha fatto sì che la band potesse ritagliarsi una fetta di consensi così forte, nel difficile mondo del metal, tale da non farle pensare nemmeno un istante quale sia la via da intraprendere, ogni volta che ci siano da vergare delle note sul rigo musicale. Così, semplificando al massimo, è sufficiente che i Meshuggah facciano i… Meshuggah, per centrare sempre e comunque qualcosa che, osservato da tutti i punti di vista, si sieda al volo sui più alti gradini della scala qualitativa del metallo contemporaneo.
Una fortissima personalità, dunque, che consente al combo svedese di perseverare nella sua particolare proposta musicale, senz’altro distante anni luce – nonostante il successo commerciale dei precedenti lavori – dalle sirene del mainstream. “Koloss” rifugge qualsiasi tentazione di scendere a compromessi con il mercato discografico proponendo facili melodie o armonizzazioni accattivanti. Niente di tutto ciò: il complicato techno thrash (o, a questo punto, djent) messo giù dall’ensemble di Umeå unisce mirabilmente un’inventività compositiva (quasi) senza uguali a un sound che definirlo granitico è poca cosa; sound elaborato sulla machiavellica facciata di un muro di suono tanto raffinato quanto impenetrabile.
Kidman fa davvero paura, con le sue perfette harsh vocals sintomatiche di uno stile asciutto, scabro, senza pietà, che non lascia nemmeno intravedere uno squarcio di luce umana in un cielo plumbeo, dominato dalla superiorità delle macchine. E proprio a quest’acuta visionarietà si appoggia l’ormai celebre guitarwork della coppia Mårten Hagström/Fredrik Thordendal, sterminato in ogni senso: sia quando si tratta di assemblare l’infinito rifferama dell’intelaiatura ritmica, sia in occasione degli ingarbugliati ma irreprensibili soli. Si può ascoltare “Koloss” anche decine di volte, che a ogni passaggio salta fuori qualche particolare, qualche dettaglio, qualche sfumatura chitarristica che invero era sfuggita, prima o, meglio, la mente non era riuscita a cogliere. Quasi inutile – ma si deve fare per giusto dovere di cronaca – ricordare, inoltre, lo speciale contributo fornito da una sezione motrice che non conosce né intoppi né indecisioni. Dick Lövgren e Tomas Haake cementano assieme il sound della band scandinava con il loro virtuosismo ma, anche e soprattutto, con la loro tremenda potenza e la loro maledetta consistenza.
Se sin’ora, bene o male, si è rimasti nell’ambito dell’umano o meglio della perfezione umana, la percezione dell’arte dei Meshuggah sfugge a ogni tentativo di analisi razionale. Sinceramente è davvero arduo tentare di spiegare come sia possibile che una musica così dura, difficile, complessa, dissonante, aritmica sia al contempo così affascinante, intrigante, avvolgente, così… catchy. “Koloss” è una fabbricazione che mette paura per la sua apparente astrusità, impenetrabilità, incomprensibilità. Allo stesso tempo, però, attrae irresistibilmente e definitivamente per il suo magnetismo animale, per la sua pregiata manifattura, per la sua affascinante architettura. Ascolto dopo ascolto diviene impossibile non rimanerne intrappolati al suo interno, assorbiti dai suoi suggestivi brani, assimilati in un unico organismo cibernetico.
Brani che bisogna gustare lentamente, uno a uno, per non lasciarsi sfuggire sia la loro univoca personalità, sia la loro singola coerenza nei rapporti con il resto del CD. Assolutamente inutile tentare di descrivere le canzoni: ne uscirebbe un trattato enciclopedico, talmente è alta la densità musicale di ciascuna di esse. È sufficiente scegliere un pezzo a caso, mettere le cuffie e quindi sprofondare nell’Universo senza confini generato dai Meshuggah. Il che è tutto dire, assieme al fatto che non ci sia nemmeno un accenno a riempire con dei filler i cinquantaquattro minuti di “Koloss”. Solo musica inedita, solo musica originale. Niente cover, remix, live, ripescaggi: un’ulteriore prova della capacità creativa dei Nostri, semmai avessero avuto ancora bisogno di confermare un’attitudine che è emersa con decisione sin dai tempi di “Destroy Erase Improve” (1995).
Volendo però onorare la loro superba bravura compositiva, anche se in maniera sintetica, non si può non citare – per esempio – l’insostenibile riottosità dell’opener “I Am Colossus”, oppure la forza esplosiva di “Demiurge” o, anche, gli accordi alieni di “The Last Vigil”. Come, del resto, non si può evitare di menzionare la maestosa “The Demon’s Name Is Surveillance” assieme alla frenetica “The Hurt That Finds You First” con, in mezzo, la trascendentale “Behind The Sun”. Insomma, ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tendenze.
“Koloss” è l’ennesimo, grandioso capitolo dell’epopea mitologica chiamata Meshuggah. Al momento, probabilmente, una delle migliori realtà del metal estremo. Sicuramente, la più moderna e al passo con i tempi. Anzi, già ‘avanti’!
Daniele “dani66” D’Adamo
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Tracce:
1. I Am Colossus 4:43
2. The Demon’s Name Is Surveillance 4:39
3. Do Not Look Down 4:44
4. Behind The Sun 6:14
5. The Hurt That Finds You First 5:33
6. Marrow 5:35
7. Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion 6:53
8. Swarm 5:26
9. Demiurge 6:12
10. The Last Vigil 4:32
Durata 54 min.
Formazione:
Jens Kidman – Voce
Mårten Hagström – Chitarra
Fredrik Thordendal – Chitarra
Dick Lövgren – Basso
Tomas Haake – Batteria