Recensione: :KTONIK:
La scuola Polacca negli ultimi anni ha riservato molteplici sorprese e piccole chicche che in pochi si sarebbero mai aspettati; certamente il bel paese baltico è arcinoto per la scena leggermente più estrema che conta nomi di alto calibro (questa non è la sede per trattarli) ma a volte l’area più eterea, progressista e visionaria ha il suo voto in capitolo. Proprio dei Votum parliamo oggi, band al quarto disco ufficiale che sicuramente non smetterà di crescere ed affermarsi negli anni venturi. :KTONIK:, questo il titolo dell’album appena nato, è un perfetto mix tra tutto ciò che si può aspettare dal prog di qualità, quello che non cerca a tutti i costi di essere fine a se stesso con barocchismi e superficiali piru-piru sulle corde di una chitarra. Avete presente la scia progressista che ha portato alla ribalta gruppi come Riverside, Leprous e Ghost Brigade? Perfetto se non conoscete i qui presenti Votum, potete unire le tre band sopracitate, aggiungerci un pizzico degli Anathema anni 2000, un briciolo dei Katatonia post Viva Emptiness e con questo mantra perfettamente articolato si ha la chiara visione di chi e cosa sono questi intrepidi Polacchi. Sembra facile, stupido e superficiale prendere band già conosciute e mischiarle per dire “Ehi questi suonano così, fatti una idea e arrangiati” ma in questo caso la bellezza che risiede alle spalle dei Votum è l’essere riusciti in poco spazio a convogliale decide di influenze per farne caratteristica fondamentale.
Se l’opener Satellite, pur magistralmente composta, risulta essere apparentemente orecchiabile e di facile appigliano ad un orecchio che ha il dono della sensibilità, con le restanti tracce la questione diventa leggermente più complessa. Certamente già la seconda Greed porta l’altalena dei sentimenti ad oscillare in maniera più irregolare ed impervia rispetto a prima, una costante ricerca del gioco di sfumature e contrasti che fanno parte integrante della band. I tempi si addormentano, ti lasciano prendere fiato per ripresentarsi in maniera completamente differente e articolata pochi secondi dopo. Le tastiere che offrono un elegante sottofondo a tempi dispari e di difficile appiglio, le sovrastrutture armoniche che combinano alla perfezione cattiveria e melanconia, l’esemplare spartiacque su cui Bart gioca all’inverosimile con la una voce cristallina. A chi è sembrata ruffiana e molle la svolta degli ultimi Riverside, coloro che sono rimasti leggermente scottati, troveranno casa e facile riparo dalle intemperie attraverso brani evocativi e surreali quali Spiral, Simulacra o Prometheus. Come se lo splendido Anno Domini High Definition fosse catapultato nel mondo di oggi con l’aggiunta del dolby sorround e del 3D, che all’epoca non era di moda. Distanti, gli echi del movimento Djent con le corde ribassate e gli stop & go echeggiano silenziosi, a differenza di quel maledetto sottogenere però, qui non v’è un utilizzo eccessivo della monotematicità trita timpani, piccoli siparietti che vagano leggeri e surreali lungo le note di questa o quella canzone, piccoli rintocchi soffusi. Come volere unire passato, seppur recente, e un ipotetico futuro del movimento prog, un genere tanto statico a livello compositivo quanto pregno di idee se realizzate a puntino. La dinamicità di :KTONIK: è riscontrabile anche con la lenta, struggente e romantica Blackened Sea, dove le poche note di pianoforte ci cullano tra le deboli onde di un mare sulla battigia, prima di portarci lentamente alla deriva per perderci volontariamente senza meta; così accade su Last Words, la canzone perfetta per chiudere un album che non delude ma costantemente sorprende, dove i contrasti sono i padroni indiscussi e le atmosfere diventano un labirinto entro cui perdere il senso dell’orientamento.
Ho desiderato aspettare a scrivere di questo disco per una semplice ragione, la non immediatezza che mi ha portato a buttarci sopra decine, decine e decine di ascolti prima di entrare pienamente nell’ottica della struttura compositiva di questi ragazzi, ma sopra ogni cosa ho voluto avere la conferma in sede live. Non sono solito parlare delle impressioni soggettive, il gusto personale no deve entrare in certi scritti, ma per questo caso farò un’eccezione. I Votum dal vivo sono tali e quali all’album, probabilmente meglio; ci tengo a sottolineare questo aspetto perché :KTONIK: è stato eseguito per la sua interezza qualche tempo fa in terra Italica e le tracce non sono artificiose, anche se piene di dettagli come riscontrabile, ogni singolo membro della band sente e vive ogni nota. Il pregio dei Votum, oltre a creare ottima musica, è quello di essere riusciti a personalizzare e rendere intimo un genere e un movimento che nel 90% dei casi non riesce ad esserlo, non riesce proprio a portare empatia nell’ascoltatore.
Abbiamo avuto molti acts validi negli ultimi anni, molte splendide realtà come quelle citate in apertura di recensione, poche volte però la musica proposta da quest’ultimi riusciva ad immedesimarsi nella realtà che viene vissuta dall’ascoltatore senza essere “sentita”. Ascoltare l’album, impararlo, vederlo suonato live e risentirlo con visioni completamente distanti da prima, riuscendo a comprendere realmente cosa si nasconde dietro queste canzoni e dentro questi ragazzi, è stato fondamentale. Come normalmente dovrebbe essere la musica viene prima percepita poi se possibile vissuta e respirata; ma a chi interessa provare emozioni oggi? Chi desidera sentire il battito del cuore? A chi piace ancora chiudere gli occhi per un’ora di concerto e sentirsi affondare in un mare di melodie e sensazioni?
Torno a chiudere gli occhi, scusate.