Recensione: Kuolema
Era il 2001, e gli Amorphis stavano mutando volto ancora una volta, dopo le grandi rivoluzioni del passato. Il loro lungo cammino ormai aveva coperto la maggior parte dei generi metal in voga, inanellando un successo dietro l’altro, e si stava dirigendo verso l’ultimo approdo, il pop-rock. Pasi Koskinen, leader e ottimo cantante, dopo Am Universum e la progettazione di Far From the Sun sentiva che il suo talento era represso da questa voglia di guadagno, che male s’incontrava con la sua voglia di pestare duro e di tornare al terrorizzante dark-death dei tempi di Black Winter Day. Così, se gli Amorphis non potevano tornare indietro, nulla impediva a lui di farlo. Celato dietro il soprannome “Ruoja”, Pasi decide quindi di fondare assieme a due amici (Malakias e Atoni) gli Ajattara, erroneamente considerato da alcuni side-project degli Amorphis, e pubblica Itse, primo album, riscontrando successi in patria e un po’ di indifferenza oltre-baltico. Due anni dopo ci riprova, ed ecco tra le nostre mani Kuolema, secondo full-length prodotto e distribuito dall’ormai veterana Spikefarm.
Iniziamo subito col dire che quest’album è stato sottovalutato da moltissima gente, e il motivo effettivamente li scagiona parzialmente: la curva di gradimento è dura, l’album è stato mal-bilanciato, e non gioca a favore di chi l’ha dovuto recensire in poco tempo. I primi ascolti sono difficili, ostici, e il problema risiede nella continua, eterna ripetizione degli stessi strumenti, tutti più o meno allo stesso livello: le chitarre sono tutte agli stessi livelli, la batteria è per lo più triggerata, il cantato è tutto dello stesso tipo, le melodie sono più o meno simili e c’è una tastiera macabra, tutta in high-pitch, che ha come risultante un appiattimento generico del suono verso le stesse melodie. Devo ammettere che io stesso nei primi mesi sono rimasto vagamente interdetto da una certa monotonia di base. Ma sapevo che Koskinen non era esattamente l’ultimo arrivato, e ci doveva essere qualcosa sotto. Così, a intervalli regolari, per mesi, mesi e mesi l’ho riascoltato, finché non ho iniziato a vedere la luce tra la nebbia: da quel momento l’album ha iniziato a regalarmi momenti magici, speciali, di grande impatto, e l’ho iniziato a rivalutare fino al momento in cui ogni melodia adesso è ben distinta, ogni canzone ha i suoi momenti e soprattutto riesco a vedere l’ispirazione che ha guidato questo progetto e a respirare infine quell’atmosfera che avevamo perduto con gli ultimi amorphis dell’EP di Black Winter Day, ultimo gorgoglìo della grande trilogia death/black/doom/dark inaugurata da Karelian Isthmus, Tales from the Thousand Lakes e appunto Black Winter Day. Ma basta parlare di Amorphis.
Parlavo appunto di cattivo bilanciamento. Con questa definizione non mi riferivo alla musica, bensì alla sequenza di tracce. L’album parte con un’ottima Antakaa Elää, biglietto di presentazione notevole, una canzone corale in cui (come del resto in ogni traccia) la tastiera molto dark segna empi cadenzati, mentre chitarre strettissime, batteria molto ritmica e uno screaming diabolico riempiono ogni battuta, generando quello che loro chiamano “black”, ma che di black ha ben poco, visto che siamo di fronte a un Death/dark strettissimo di chiara matrice finlandese. Ora, i generi finlandesi, per via del loro isolamento anche culturale, sono abbastanza differenti dai generi scandinavi e europei, quindi c’è da farci una certa bocca, specie per i digiuni di musica finlandese, e soprattutto per i digiuni della lingua finlandese, un idioma complesso, che cantato ha sicuramente il suo effetto ipnotizzante. Trovo che i suoni siano molto vicini alla lingua italiana, per via delle frequenti doppie e per la valanga di vocali, e spesso capita di percepire il finlandese come un italiano incomprensibile. La risultante è abbastanza intrigante. Tuttavia, l’album dopo la succitata “Antakaa Elää“ inizia a perdere un po’ di personalità, con tre canzoni che servono a costruire corpo, ma tirano fuori poca anima: a parte alcune parti decisamente interessanti, pregne di rallentamenti, interruzioni improvvise e di melodie funeree, come nella seconda “Surman Henki“, Kuolema ha poco da raccontare. Ed è stato probabilmente quel piccolo lasso di circa 10 minuti che ha gettato nello sconforto buona parte dei recensori e dei critici.
Peccato che con la quinta traccia, “Ikiyössä“, il CD cambi completamente musica. La canzone è più sgraziata, disarticolata, le chitarre diventano melodiche, la tastiera lascia diverse pause, e si inizia a seguire un filo narrativo funereo, freddo, in cui la bellezza dell’idioma finnico si sviluppa in un bellissimo ritornello corale a più voci, molto “catchy”, una novità per un album granitico come questo. Dopo una canzone intermediaria come “Musta Leski” segue l’ottima “Sielun Särkijä“, capolavoro del CD, che inizia a mostrare la sua maturità, e ci dimostra parti interessanti come uno scampanare improvviso di una campana tetra, che accompagna la suddivisione di strofe e aggiunge tensione orrorifica alla canzone, già impregnata da una interessante spirale verso il basso. Nel fondo della catacomba ci aggrediscono le agghiaccianti melodie di “Kituvan Kiitos“, altra ottima canzone simile nello svolgimento alle precedenti, ma che termina con un opprimente assolo atmosferico di rumori inquietanti, atmosferici, che gettano l’ascoltatore da solo, nella nebbia gelida di una città in rovina. L’orrore continua con l’epica, drammatica “Helvetissä on syntisen taivas” (l’inferno è il paradiso dei peccatori”), che dimostra dei bei lenti atmosferici di ottima sapienza compositiva intermezzati dal solito screaming maligno e violenti di Koskinen. L’album si chiude con la martellante “Rauhassa“, ottima sia nella sessione di percussioni che nell’evoluzione melodica, che vede dei bei cori di voce pulita che da soli fanno proprio pensare a una traccia catartica conclusiva.
Kuolema (che significa “morte”) non è per tutti. Bisogna superare diversi ostacoli prima di poterne apprezzare tutte le potenzialità, ben chiare in Finlandia dove ha avuto un ottimo successo, abbastanza mistificate nel resto del mondo. La lingua utilizzata è strana, e suona strana nelle strofe. La ripetizione ossessiva dei casi grammaticali che terminano con la sillaba “-ssa” creano un tappeto proprio “fisico” che può essere scambiato per monotonia ripetitiva. Non ci scordiamo però che una delle caratteristiche principali e autoctone del metal finlanedese è l’ossessionante ripetitività dei riff, che ruotano come un ciclo perpetuo (basti pensare alla maggior parte degli album degli Amorphis per rendersene conto) e che riescono a non essere ridondanti solo se sfruttati in un certo modo. Kuolema in questo senso è più vario nelle melodie, ma nelle vocals mantiene intatto il gusto tutto finnico di questo CD. All’inizio può essere un ostacolo, lo stesso ostacolo che si può incontrare anche nei Moonsorrow di Voimasta ja Kunniasta e di Kivenkantaja. Il segreto è l’ascolto settoriale, è la percezione di certe melodie.
Non tutti sono disposti a farlo, per questo dico: Kuolema non è per molti. Se vi è sempre piaciuto il modo finnico di costruire la musica, Kuolema può rivelarsi un ottimo ascolto, anche se leggermente breve (33 minuti e 33 secondi). Non vi aspettate l’easy listening degli ultimi Amorphis, però. Qui c’è un po’ da lavorarci, limitarsi ad alcuni ascolti può farvi venire un’idea abbastanza errata del prodotto. Del resto, non tutta la musica è fruibile ai primissimi ascolti. Se avete voglia di ascoltarlo con passione e concedergli il suo tempo, vedrete che verrete ripagati, superate tutte le complicazioni di cui ho parlato. Se avete amato alla follia gli Amorphis di Tales from the Thousand Lakes ritroverete delle piacevoli sorprese e pure un po’ di nostalgia. Se vi piace del buon death, molto oscuro, dark, ossessivo, pensate all’acquisto. Itse è leggermente inferiore a questo, quindi Kuolema deve avere la precedenza. Se non avete molta voglia di ascoltare un CD per tanto tempo prima di iniziare ad annuire, avete la libertà di non comprarlo, ma cederete alla tentazione leggermente qualunquista di dire che l’album è troppo monotono o noioso: lo stesso problema che ha afflitto molti ascoltatori occasionali dei Moonsorrow o dei Finntroll. Un metal che non possono comprendere tutti, ma ai finlandesi non ha mai interessato più di tanto. Che volete farci, it’s the Finnish way.
TRACKLIST:
1. Antakaa Elää
2. Surman Henki
3. Haureus
4. Huoran Alla
5. Ikiyössä
6. Musta Leski
7. Sielun Särkijä
8. Kituvan Kiitos
9. Helvetissä On Syntisen Taivas
10. Rauhassa