Recensione: Kveldssanger

Di Daniele Balestrieri - 1 Ottobre 2006 - 0:00
Kveldssanger
Band: Ulver
Etichetta:
Genere:
Anno: 1996
Nazione:
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100

Nella mistica bruma della sera, quel momento magico in cui sole morente e luna nascente convivono nella stessa parte di cielo, schiocca la scintilla della chitarra classica e il solenne mormorare del violoncello: nasce così, con i grilli e le lucciole, Kveldssanger, i “Canti della Sera”, e il Black Metal incide con orgoglio sul suo nero fucile il suo irripetibile pezzo di storia.

Forgiati dalle visioni del clamoroso Bergtatt, al quale seguì il fragoroso crollo della prima line-up, i Lupi vengono chiamati a raccolta per la seconda volta da Garm il quale, ispirato come non mai, attira al suo capezzale le corde di Haarvard e le pelli Aiwarikiar per comporre quella che i posteri riconosceranno come la grande rivoluzione del black metal.
Preso, quasi sorpreso, dalla potenza narrativa dai cinque atti della della donna incantata, rapita e imprigionata nella montagna dei troll, il geniale frontman degli Ulver decide di distruggere la barriera che mantiene separato il mondo crudo e devastante del Black Metal dalla tradizione popolare norvegese e di reinventarne i canoni, scindendo ciò che era stato magicamente legato nel loro primo capolavoro.

Bergtatt era infatti una fusione roboante di black e folk di stampo non solo nordico, ma dannatamente norvegese, che pulsava in maniera clamorosa, dalle intro di pura chitarra acustica ai grandi momenti di nichilismo scandinavo il cui apice fu raggiunto dalla lunga e disperata corsa nel bosco a metà del terzo capitolo, in piena furia narrativa. Due parti – folk e black – che sono state scisse nei due album successivi creando da un lato il selvaggio inferno black di Nattens Madrigal, e dall’altro il monumento dedicato al silenzio della sera e alla potenza della natura: Kveldssanger.

La malinconia primigenia che intride le tredici tracce di questo piccolo gioiello d’arte folkloristica detta leggi severissime: l’elettricità sparisce da ogni strumento, lasciando unicamente fiati, voci, corde e percussioni operate unicamente dall’essere umano; la voce esce pulita direttamente dal cuore, e il grande protagonista delle epoche ancestrali, il silenzio, risuona più oleoso che mai nelle brevi pause tra una suite e l’altra, pesante come i sospiri che separano gli inni dei madrigali della notte.
In trentacinque minuti e mezzo Kveldssanger dipinge lentamente il palpitante affresco di un fiordo, di un bosco, di un campo sfiorato dal vento e di un villaggio dormiente nel quale ogni ascoltatore viene invitato a osservare il candore della luna che occhieggia dalle cime degli alberi di “Sielens Sang“, o le ombre della notte che si allungano dai limitari delle foreste come dita ossute e nere sui campi ancora illuminati dal tramonto, o ancora la spensierata ballata, l'”Halling” di una famiglia che compie gesti ancestrali al crepitare dei camini.

Questo è un mondo in cui si entra in punta di piedi, per non far rumore, per ascoltare quei suoni che compiono le drammatiche evoluzioni dei colori del tramonto, dal blu chiaro, al rosso fuoco, all’arancio, al viola scuro della notte incipiente.
Il misticismo della natura sussurra grazie ai misteriosi violoncelli, la passione dei suoi abitanti è colorata dalle nobili chitarre e il soffio del vento prende vita dai flauti eterei, mentre la voce stratificata, ora corale e ora monocorde di Garm sottolinea in antico danonorvegese momenti perduti e nascosti di una tradizione ormai appartenente al passato.

Kveldssanger tocca le corde più profonde dell’elitarismo proprio del black metal e lo rende sublime ed evocativo. Album storico nel proprio contesto musicale, i Canti della Sera riescono a compiere l’irripetibile miracolo di estirpare l’essenza più intima del Black Metal e di trasformarla in un album che oggettivamente nulla ha di black, nulla ha di metal e nulla ha di elettronico. Solo un rincorrersi di strumenti e di cori che sfiorerebbe l’anima di chiunque, dal frate più intransigente al pastore più ruvido alle pendici dell’Handangervidda.

Con un disco che rimarrà un unicum eccezionale nella storia del black metal, gli Ulver segnano con un colpo netto ciò che era solo stato accennato in passato, ovvero il trionfale ingresso del folk nel black metal, del folk DENTRO al black metal, del folk che si interseca, si annoda e si amalgama completamente negli apparati del black metal. Grazie a Frost, grazie a Vikinglir Veldi, grazie a Bergtatt e grazie soprattutto a Kveldssanger le band attuali hanno trovato ispirazione, e forse anche coraggio, di produrre album come Vredens Tid o Kivenkantaja, che forse non sarebbero mai esistiti nella loro forma attuale.
Kveldssanger è probabilmente l’unico album nel mondo del metal a non possedere i requisiti per ottenere un voto: 0 o 100 hanno egual valore, tutte le altre votazioni sarebbero prive di senso, poiché implicherebbero dei paragoni che oggettivamente non esistono.
Che il sole tramonti:

“Non essere colui che promette di vagare nell’oscurità
 se non hai mai visto la notte.”
 
Kveldssanger, Ord.

TRACKLIST:

  1. Østenfor Sol og vestenfor Maane
  2. Ord
  3. Høyfjeldsbilde
  4. Nattleite
  5. Kveldssang
  6. Naturmystikk
  7. A cappella (Sielens Sang)
  8. Hiertets Vee
  9. Kledt i Nattens Farger
  10. Halling
  11. Utreise
  12. Sofn – ør paa Ulvers Lund
  13. Ulvsblakk

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