Recensione: L.A. Attraction
In possesso di un nome assolutamente indicativo al riguardo della proposta musicale offertaci, tornano con il quinto studio album gli AOR di Frédèric Slama, polistrumentista di origine francese a quanto pare assolutamente assorbito da un amore cieco ed incondizionato per la città di Los Angeles alla quale, sin dal lontano 1992, dedica i suoi prodotti discografici.
Scorrendo la lista delle star presenti e “collaboranti” sul dischetto di cui stiamo parlando, l’attento ascoltatore sarà sin da subito ben conscio dello stile proposto che, al di là dell’appellativo già di per sé mirato, vede svelarsi l’orientamento “adulto” ed elegante dalla presenza di notevolissimi calibri quali Philip Bardowell, Steve Lukather, Michael Landau e soprattutto del “solito” Tommy Denander, onnipresente mastermind della scena AOR, autore di gran parte del lavoro svolto in sede di produzione oltre a qualche comparsata con chitarra e tastiere.
Atmosfere ariose dunque, e sempre rivolte alla ricerca di toni decisamente “di classe”, con melodie molto spesso di facile presa e suoni estremamente ricchi e cristallini (tipici dell’AOR sound e del Denander-style in particolar modo) sono le caratteristiche base alle quali fare riferimento, identificabili sin dall’incipit del disco che immortala con immediata prontezza l’intento della band di ricreare le tipiche e calde sensazioni riconducibili a gran parte della produzione West Coast degli ultimi tempi, che mutua inoltre alcuni punti di contatto con i grandi TOTO, senza dimenticare i Radioactive ed i meno conosciuti Newman e Storming Heaven come eventuali termini di paragone.
Il grande dubbio tuttavia che emerge dopo un ascolto approfondito del cd è al riguardo della brillantezza del songwriting che, ad essere sinceri, non appare in effetti del tutto convincente ed in grado di regalare particolari acuti.
Per essere estremamente chiari, ci troviamo di fronte ad un lavoro formalmente perfetto dal punto di vista “tecnico” (suoni ineccepibili e capacità dei singoli indiscutibile) ma tutt’altro che memorabile in quanto a dinamismo e grinta: quasi tutti i brani ascoltati possiedono un inizio accattivante e ricco di atmosfera che fa ben sperare ma che sfortunatamente in seguito si perde avvitandosi su melodie a volte scontate e ripetitive, prive di effettivo mordente ed in qualche caso addirittura noiose (indicativa in questo senso “Don’t ever say goodbye”: perfetta per il primo minuto poi irrimediabilmente stucchevole e noiosamente ripetitiva).
Un vero peccato perché alcune situazioni, se ben sviluppate, avrebbero potuto davvero contribuire a rendere più interessante il cd, che così appare come un prodotto riuscito a metà e francamente trascurabile: brani come “”L.A. Winds”, “I Won’t Give Up On You” e “One More Chance” ad esempio, rivelano ottimi germogli di AOR di grandissima classe, non innaffiati purtroppo però dalla giusta dose di dinamismo ed incisività e privi, alla resa dei conti, dell’appeal che avrebbero potuto possedere se resi maggiormente efficaci; interessanti invece le conclusive “Give A Little Love” e “Lost In Your Eyes”, maggiormente orientate a toni Smooth Jazz che strizzano l’occhio a situazioni ascoltate nella produzione meno nota di Glenn Hughes piuttosto che di Neal Schon solista, senza tuttavia recarne la medesima dose di classe ed inarrivabile maestria ma comunque godibili seppure ben lontane dai gusti del 90% dei fruitori di musica rock.
Un occasione sprecata quindi, un lavoro come detto riuscito a metà ed in fin dei conti poco competitivo se paragonato alle recenti e brillantissime uscite di Radioactive e Philip Bardowell alle quali vi rimando se siete in cerca di melodie accattivanti e catchy, arricchite di una buona dosa di dinamismo e “passionalità”. Trascurabile.