Recensione: La Quête du Saint Grind
Partiti come semplice band di grindcore, i francesi Ethmebb in soli quattro anni hanno compiuto un salto di qualità notevole, giungendo a maturità con il loro debut-album, un concept dal nome “La Quête du Saint Grind”.
1065 A.D. Terre Incantate. Tathor, un cavaliere armato con una spada di smeraldo, mantiene pace e armonia in quelle lande felici e spensierate. Il suo potere è il potere del Drago Fiamma. Ma, dagli abissi, è salita in superficie una forza oscura per minacciare gli abitanti delle Terre. Rubando il Grind, cioè il calice magico che rende Tathor sessualmente irresistibile…
… e così via… la storia, goliardica, si srotola sostenuta da un incredibile pot-pourri di tutti i generi metal esistenti, o quasi. Fondamentalmente, lo stile prevalente è il viking metal, parente prossimo del death metal melodico, qui assai presente, perlomeno a livello musicale. Certamente i temi trattati non sono paragonabili a quelli degli Asi ma, riferendosi comunque a gesta epiche e a terre leggendarie, il viking, almeno come potenza, energia, sapore, odore, ben si sposa con l’idea del quartetto transalpino. Fra trombe, fisarmoniche, chitarre acustiche, e altri strumenti stavolta più tipici del folk metal, Rémi Molette e i suoi tre compagni d’avventura spingono con veemenza sull’acceleratore per sostenere le gesta del prode Tathor.
Il metallo scaturito è furente, possente, a volte violentissimo, che si spinge volentieri oltre la soglia dei blast-beats per piombare in quella del… funk rock (‘A la Recherche de la Découverte de la Quête pour Trouver le Saint Grind’)! Un turbinio caleidoscopico di note, una cascata di armonie costantemente cangianti, mai ripetitive, a volte inaspettate, a volte sorprendenti. Che, con una visionarietà assoluta, rendono davvero vive e concrete, da toccare, quasi, le avventure del cavaliere disperato, impegnato allo spasmo nella ricerca del suo sex appeal perduto.
Così, si passa da sfuriate di puro death metal (‘Lost my Grind’) a leggiadre melodie trasognanti (‘Orlango Blum’), passando per sconfinati paesaggi ove si svolge l’azione narrata e, quindi, anche, passando per i Caraibi a cercare il Sacro Grind fra i pirati e le loro cameratesche canzoni (‘Pirates of the Caribou’), nell’impossibile unione in matrimonio fra blast-beats e cori deformati dal troppo rhum.
Come un crescendo rossiniano, via via che “La Quête du Saint Grind” scorre sulle onde del mare, gli episodi dell’epopea si fanno sempre più lunghi, temporalmente parlando. Tant’è che l’ultimo capitolo (‘Bruce Lee Mena l’Amour’) raggiunge, fra Bruce Lee e ‘La Vie en Rose’, i diciassette minuti di durata. Stavolta, puramente di allegria e spensieratezza. Anche se, come ovunque, gli Ethmebb non si dimenticano mai di pestare per bene, come si deve. In coerenza con la loro natura primigenia, di madre grindcore, cioè, e di uno spirito burlesco che non si spegne mai. Nemmeno per un secondo.
“La Quête du Saint Grind” è quindi un full-length assolutamente unico nel suo genere, ricchissimo di frizzanti trovate buffonesche, che fanno da contrasto a un’impostazione stilistica ancorata ai principali – e seriosi – dettami del metal estremo.
A volte gli Ethmebb sono ridondanti e caotici, sì da perdere la retta via per divagare magari un po’ troppo, ma comunque in una granitica coerenza con se stessi.
Sempre.
Daniele D’Adamo