Recensione: La Stanza delle Maschere
Cinque anni sono bastati a La Stanza delle Maschere per pensare, realizzare e rilasciare il loro album d’esordio; non poteva che essere su etichetta Black Widow Records (gloria sempre), regina mondiale di meravigliosi incubi sonori che fin qui hanno pubblicato. La band ha chiari e voluti riferimenti nei massimi esponenti delle arti oscure quali H.P. Lovercraft, E.A Poe, G. Scerbanenco nella letteratura, Goblin, Jacula, fino ai più recenti Il Segno del Comando, ma anche Fabio Frizzi e Luis Enriquez Bacalov nella musica, Mario Bava, Lucio Fulci, Dario Argento, Pupi Avati nel cinema. In loro ha trovato una sorta di affinità elettiva col mondo del gotico e dell’esoterismo, fino a fare propri certi insegnamenti, per inventare una propria creatura musicale che profuma di passato ma che guarda al futuro, vista la freschezza dei suoi suoni. Artefici di questo rilancio della lezione italiana al mondo in arti orrorifiche, sono soprattutto Domenico Lotito, creatore delle musiche, e Angelo Sposito, scrittore delle liriche; certo, ovviamente ben coadiuvati dagli altri membri del gruppo che hanno avallato tale progetto.
Si inizia con un’introduzione, ideata appositamente per provocare i primi brividi nell’ascoltatore, dal titolo emblematico “Ritorno dal Passato” (netto l’intento). Un muro di chitarre e tastiere stratificate che ci strattonano per un viaggio ormai obbligatorio. “L’Alchimista Scultore” è un racconto che ha nella voce recitata di Sposito il suo fulcro, nonché la bellezza di tale idea, che rimanda pure al “Concerto delle Menti” (1973) dei grandiosi Pholas Dactylus. “La Casa dalle Finestre che Ridono” è il primo dei due omaggi che La Stanza della Maschere fanno al maestro Pupi Avati, che col suo film-capolavoro si distinse come uno dei cardini del filone gotico (avete visto “Il Signor Diavolo”?). A coadiuvare il narratore, ora c’è la voce di Tiziana Radis, che tesse l’armonia sopra alle atmosfere dark prog che i nostri hanno giocato a immaginare. “Il Vecchio Teatro”, uno dei due picchi del disco, ha trame sonore molto hard, sì, modello Antonius Rex, ma qui sviluppate ed estese all’oggi. Il buio regna sovrano e il silenzio ne è il compagno perfetto; la storia è toccante e lascia presagire immagini care agli sceneggiati Rai tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70, sospese nell’alone di mistero che immobilizza il respiro. Con “Sette Note in Nero”, omaggio al maestro Lucio Fulci, LSdM dà libero sfogo alla fantasia che deriva dalla visione di questa pietra miliare uscita nel 1977. Con passo più veloce, dediti ad un esercizio di hard rock che sfocia successivamente in una melodia che colpisce, i nostri trovano in questa nuova stanza una dimensione parallela che li aiuta a musicare le forme corporee, e non, uscite dallo schermo. “Presenza”, ossia una singolare e inconsueta allucinazione del protagonista di questa novella nera. Ancora narrazione a braccetto con coro armonico, base sonora rocciosa; spunto di un sogno che si fa ben presto incubo. “Veneficio Lunare”, heavy prog di prim’ordine, con Tiziana come protagonista con voce ora ammaliante, ora sinistra. Nebbiosa, fioca, sorprendente. “Calibro 9 Medley”, omaggio al film poliziesco italiano per antonomasia (rif. Milano Calibro 9), porta in trionfo sia le intuizioni del regista Fernando Di Leo, sia la fantastica colonna sonora degli Osanna insieme al maestro Bacalov. Una personalissima interpretazione di un cinema che tutti ci invidiavano, da noi sfracellato nell’oblio e resuscitato grazie alla voce di artisti di fama mondiale come Quentin Tarantino. Se solo fossimo meno esterofili, potremmo capire quanta ricchezza artistica abbiamo in Italia. “Zeder”, altro omaggio ad Avati, ha andatura più prog rispetto ai brani precedenti, pur restando nell’ambito hard rock. Un ottimo “tiro” che aiuta questa favola oscura, densa di morbose situazioni ed eterei ambienti.
Conclude il lavoro il brano omonimo “La Stanza delle Maschere”, secondo picco; anticipata da rumore di passi e urla susseguenti, si è ora certi che siamo di fronte a una band che, sì, sarà di nicchia, ma che senza la cultura ultradecennale di cui sopra, nessun foresto potrà mai ambire a realizzare. Sottolineo: nessun discorso razzista o sovranista, ma solo una semplice ma importante constatazione legata a ciò che nostri connazionali hanno saputo concepire. Lunga vita a gruppi come La Stanza delle Maschere.