Recensione: Labyrinth
Chiamarsi Fleshgod Apocalypse oggi non deve essere affatto facile per svariate ragioni: i ragazzi, infatti, non solo sono considerati tra le band di punta del death metal italiano, ma sono riusciti, due anni or sono, a firmare un contratto con la major metal per eccellenza: la Nuclear Blast.
Era il 2009 quando l’allora trio, sotto le ali protettive della Willowtip, diede alla luce uno dei dischi brutal più sensazionali del primo decennio del 2000: Oracles. L’album presentava al suo interno caratteristiche quanto mai curiose, che ne decretarono il successo un po’ in tutto il vecchio continente. Quali erano queste caratteristiche? Semplice: il combo riuscì con apparente facilità a creare un sound all’interno del quale convivevano armonicamente parti brutal/death ed elementi fortemente debitori alla musica sinfonica del ‘700 e dell’800.
Il passaggio alla Nuclear Blast coincise, due anni fa, con la nascita del full-length Agony. Questo secondo nato in casa Fleshgod Apocalypse se da un lato attirò nuovi fan, dall’altro deluse parzialmente i fan di ‘vecchia data’. Il motivo di tale scontento era da ricercare nell’eccessiva enfasi delle parti orchestrate, che tendevano a relegare in secondo piano chitarre, basso e batteria.
A due anni da Agony, ecco che i Nostri tornano a calcare le scene con una nuova opera intitolata Labyrinth, che, ne siam certi, farà parlare molto di sè.
Qualora vi stiate chiedendo se ci siano stati o meno ulteriori cambiamenti rispetto al controverso predecessore, la risposta è sì. E l’evoluzione è tutt’altro che positiva. I Fleshgod Apocalypse, infatti, appesantiscono la loro proposta, rafforzando ancor di più il comparto sinfonico, che in quest’album diventa il vero protagonista della scena. Chiariamoci, i ragazzi suonano, lo fanno benissimo e, talvolta, l’anima più dura e rocciosa della loro musica riesce ancora ad emergere, ma troppo spesso viene relegata a semplice ruolo di coprotagonista in una storia che sa fin troppo di barocco.
I brani risultano piuttosto lavorati, le strutture appaiono addirittura ancor più complesse rispetto a quelle dei primi due dischi e ciascun membro della band sfodera una prestazione tecnicamente ineccepibile. I riff, sebbene spesso soffocati dalle orchestrazioni, paiono appena più corposi rispetto al passato più recente; il basso, laddove udibile, svolge un lavoro a tratti pregevole. Le parti di batteria, come di consueto, scandiscono tempi con una veemenza inaudita, risultando talvolta quasi esagerate; c’è da notare però che, a differenza di prima, si può scorgere una maggior varietà nelle ritmiche.
Se tecnicamente il lavoro risulta ineccepibile e scevro da qualsivoglia ‘falla’, a deludere è il songwriting. Le canzoni, infatti suonano a tratti poco concrete, eccessivamente cariche di orpelli che distraggono non poco l’ascoltatore e spesso molto simili l’una l’altra. Principali ‘colpevoli’ di ciò sono non solo degli archi invadenti come non mai -e talvolta anche del tutto fuori luogo-, ma anche la voce del soprano Veronica Bordacchini, brava quanto si vuole, ma decisamente eccessiva in più di un passaggio. La voce della cantante, che in più di un passaggio pare addirittura forzata, spesso e volentieri uccide letteralmente il pathos che si dovrebbe venire a creare all’ascolto di questo Labyrinth.
Capitolo a parte merita la voce di Paolo Rossi, sempre più in difficoltà con le clean vocals che, mai come in questo caso, paiono del tutto inadeguate, nonché strozzate.
Ad accentuare ancor di più questa sorta di ‘eccesso sonoro’ ci pensa una produzione che definiremo eufemisticamente bombastica. Alla Nuclear Blast sembra cerchino sempre più di conferire ai loro album un sound strabordante, a tratti del tutto plastificato, e oltremodo patinato, che, alla lunga, uccide anche la personalità stessa del singolo disco.
Naturalmente, all’ascolto della tracklist, non tutto è da buttare. Lodevole è intanto la mole di minuzioso lavoro fatto dal combo per la realizzazione dell’opera: il concept, basato sul mito del labirinto di Cnosso, risulta accurato e i testi rispecchiano l’approfondita ricerca compiuta dai Nostri.
I pezzi non sempre mancano di mordente, l’album in generale non difetta di aggressività e gli arrangiamenti, pur nella loro estrema ‘cafonaggine’, riescono ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore in più di un passaggio.
A sostegno di quanto appena scritto arrivano canzoni quali ‘Towards the Sun’ che, nonostante riporti fin troppo alla mente certe cose dei greci Septicflesh, svetta grazie a chitarre che, finalmente, riescono ad emergere un minimo dal marasma orchestrale. Sulle stesse coordinate si muove anche ‘The Fall of Asterion’, uno degli episodi migliori, grazie a un songwriting più dinamico e fresco. A rendere ancor più interessante questo brano ci pensa l’interpretazione magistrale di Tommaso Riccardi, autore di una prova come di consueto convincente sia sotto il profilo tecnico, sia sotto quello strettamente emotivo.
A far da contraltare ci pensano tracce insipide quali ‘Epilogue’, che non solo non cattura a causa di arrangiamenti fin troppo manieristici, ma anche per la già citata interpretazione vocale di Veronica, spesso alle prese con note fuori dal suo range vocale.
Anche la successiva ‘Under Black Sails’ non fa che confermare i dubbi circa le scelte stilistiche operate dai nostri: il riffing pare poco ispirato e vario, così come il drumming, fin troppo lineare e ripetitivo.
I restanti titoli si muovono bene o male sulle stesse coordinate e, pur senza risultare troppo sciapi, si dimostrano del tutto incapaci di colpire come sperato.
Questo è in definitiva Labyrinth. I Fleshgod Apocalypse sono dei ragazzi intelligenti e degli ottimi musicisti, su questo non c’è dubbio. Il materiale è tanto, la mole di lavoro altrettanto e si sente. Quello che continua a perplimere è però altro: se Oracles si distingueva per un’eleganza formale strabiliante, che riusciva comunque a convivere con la violenza tipica del brutal, perché snaturare così tanto la propria proposta?
Labyrinth, nonostante raggiunga pienamente la sufficienza, segna un netto passo indietro non solo rispetto al primo full-length, ma anche rispetto ad Agony, che comunque suonava un poco più bilanciato. L’unica domanda che ci rimane è questa: arrivati a questo punto, i Fleshgod Apocalypse riusciranno a ritrovare la strada persa, o continueranno a calcare la via più semplice, ma artisticamente meno appagante del facile ‘successo’?