Recensione: Labyrinth Of Pain
I Ruxt prendono vita cinque anni fa e, a oggi, vantano nello scrigno della loro prolifica carriera, ben quattro full length: Behind The Masquerade (2016), Running Out Of Time (2017) e Back To The Origins (2018) oltre al nuovissimo Labyrinth Of Pain. Qualche scossone nella line-up decreta gli ultimi passi del combo ligure, vi è infatti la dipartita del cantante Matt Bernardi che lascia il proprio posto al subentrante K-Cool. Il resto della formazione si assesta su vecchie triglie dell’hard di casa nostra che rispondono ai nomi di Stefano Galleano (chitarra), Andrea Raffaele (chitarra), Steve Vawamas (basso), Alessandro “Attila” Fanelli (batteria).
Labyrinth of Pain, oggetto della recensione nonché quarto vagito ufficiale dei Ruxt, vede la luce per la Diamonds Prod. e si accompagna a un libretto di otto pagine comprendente foto della band in posa e dal vivo più tutte le note tecniche del caso. Nessuno spazio viene dedicato ai testi delle varie canzoni che assommano a 57 minuti di musica.
Sin dall’opener “Labyrinth Of Pain”, pezzo che dà il titolo all’intero disco, è un florilegio di hard rock purissimo extra classico suonato possente con le chitarre belle graffianti. L’ugola della new entry K-Cool è sofferta al punto giusto, vissuta ma senza per questo non aderire ai tempi dettati dalla band, cosa che viceversa accade a molti vecchi leoni che impongono dei “cali di giri” agli altri per poter “starci dentro”. Il cantante dei Ruxt sa trasferire le rughe che contiene in gola al servizio dei pezzi e la sublimazione avviene lungo tracce quali la stupenda “Waiting”, la selvaggia “One Step Behind” e la sanguinante “Simply Stranger”.
Durante più e più passate di Labyrinth Of Pain si fa strada la consapevolezza che i Ruxt abbiano confezionato un prodotto di alto lignaggio, figlio di un’esperienza e di un credo antico. Nulla di nuovo sul fronte occidentale, beninteso, semplicemente un lavoro totalmente votato alla causa dell’hard, ottimamente scritto, suonato e interpretato.
Idealmente il disco, a livello di tiro condensa l’essenza di band quali Whitesnake, Dokken e Pretty Maids ma senza possedere la magia omicida che questi tre gruppi hanno saputo e talvolta sanno ancora emanare. Per intenderci, dentro Labyrinth Of Pain, mancano tracce della portata di “Here I Go Again”, “Alone Again”, “Yellow Rain”. Non che sia semplice, ovviamente, ma tant’è. La forza del prodotto griffato Ruxt si annida nella compattezza di fondo, sul mantenimento di alti livelli e la mancanza di filler, cosa non da poco, sia ben chiaro. Se i liguri riusciranno in qualche modo a scalare il gradino successivo la prossima volta saremo a discernere di un qualcosa in grado di segnare la storia della musica dura alle nostre latitudini.
Detto e scritto questo, difficilmente in ambito tricolore hard rock stra-fucking-classic potrà uscire un altro album di codesta caratura lungo il 2021.
Stefano “Steven Rich” Ricetti