Recensione: Lacerate The Global Hate
I bavaresi Eternal Torture tornano sulle scene con il nuovo “Lacerate The Global Hate“, seguendo il precedente “Dissanity” del 2011. La band, formata nel 2008 mette in campo un death metal che tende a privilegiare la componente -*core e miscelata, a loro detta, col dubstep. A differenza del primo full-length i Nostri provano a imbastire un disco robusto che regali sprazzi di elettronica ed effettistica al suo interno, e la scelta non è da disprezzare, se non fosse che il materiale di base risulterà povero e privo di idee originali, se non per qualche lampo e soprattutto per l’aggressiva voce di Brecht, che si accolla il compito di tirare avanti la baracca (a fatica). Prodotto da Mario Jezik negli Noiseheadstudios in Austria, il disco vive di una precisione chirurgica, ma sterile e gelida, che lascia trasparire ben poco di umano e musicale.
L’intro “Dresscoat Meat” si evolve in maniera naturale e ne scaturisce un buon approccio alla band a furia di martellamenti incessanti e sezioni ben contraddistinte, compreso uno slow-time in cui Brecht sputa l’anima, tirando fuori il ‘meglio’ del suo lato gutturale. Anche le chitarre lavorano a pieni giri e, nonostante non siano affilatissime, lasciano che il brano vada giù liscio. Peccato per il finale in diminuendo, la peggiore idea per chiudere il brano iniziale, ma potrebbe esser visto come una trovata originale.
“Wardrones” ci porta a contatto con elementi industrial/elettronici che di tanto in tanto si inseriranno anche nei brani successivi, anche se con poca efficacia. Escludendo questi inserti da qui l’ascolto diventa un’eterna tortura. Perché ne segue una serie di brani che s’imbattono in quel pericolosissimo ambito chiamato death-core, che, a esclusione di poche band che ne sanno far buon e parsimonioso uso, diventa un chewingum dal quale è difficile non rimanerci impantanati.
“Beautugly” segue a ruota questa melma, ad esclusione del finale, che lascia la batteria midi chiudere in solitaria il brano. “Hate Prevails” riprende ossigeno e, come l’opener, riesce a differenziare le sezioni, anche se il contenuto è abbastanza povero e non particolarmente interessante, se non per qualche cambio di tempo. L’uso di elettronica nella voce in “Never Forgive And Never Forget” dà qualche piccolo stimolo di proseguire con questa eterna tortura, in tutti i sensi. “Social Disaster” mette in mostra la velocità del doppio pedale inziale di Neuberger, che al giorno d’oggi non impressiona nessuno avvezzo col genere. I blast invece rendono interessante l’alternarsi della voce tra i registri contrapposti. Oltre a questo i riff successivi sono scontati e banali, che sprizzano noia negli stacchi, in cui anche la batteria riesce ad essere poco efficace. Lo sono meno i riff pretamente death metal di “For The Masses”, il suo ritornello melodico e l’inserto di synth, elementi che rendono il brano perlomeno diverso dai suoi colleghi di setlist.
“Humanus Vevenum” ricalca esattamente le prime righe, col suo andamento paranoico e scontato, con la doppia faccia della voce che si alterna tra screaming e growl con un raddoppio della batteria, ma senza mai lasciarci uno spiraglio di ‘nuovo’, se non uno scratch e ancora effettistica varia nel mezzo del deserto, mentre il timing rallenta ulteriormente. Anche “Rise In Death” non cambia marcia, così come la conclusiva “Song for the Weak”, che vede il solo Brecht continuare a disperarsi con la sua voce, ma senza colpire in alcun modo nuovi tasti emotivi.
Che dire, prova senza alcunché di nuovo sul fronte -*core. Disco che verrà messo in disparte dopo un ascolto. Difficilmente ci si potrà innamorare del loro discorso musicale, sia tecnico che compositivo. Arrivederci al prossimo capitolo.
Vittorio “versus” Sabelli
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