Recensione: Laguz
Li avevamo persi di vista dopo “Rvbicon”, in smaniosa attesa di un nuovo capitolo della loro discografia, e gli Ancient Rites ci han fatto penare le famigerate sette camicie prima di darci quanto aspettavamo. Ben nove anni, infatti, i fan del gruppo belga hanno visto passare prima che si presentasse alle loro orecchie questo nuovo “Laguz”. Tanto tempo sarà stato dunque sprecato in vano o gli Ancient Rites avranno lavorato così di fino, a cesellare ogni singola nota, da render questa loro sesta uscita un capolavoro destinato agli annali del metal?
In realtà, appena si pone il CD nel lettore e si schiaccia il tasto “play”, l’impressione è di esser risucchiati in un viaggio indietro nel tempo e di tornar indietro a quando “Rvbicon” aveva appena terminato di girare nello stereo per la prima volta. Il senso di dejà-vù è veramente molto forte e questo, quando si parla di musica, raramente è davvero un bene.
Le prime sensazioni vengono confermate poco a poco che i brani scorrono uno dopo l’altro: il tempo per gli Ancient Rites si è letteralmente fermato. “Rvbicon” non aveva fatto segnare una nuova, netta, evoluzione del sound del gruppo belga, come invece era accaduto con “Fatherland” prima e “Dim Carcosa” poi. Pur essendo un gran disco, infatti, si era limitato ad assestare, limare, aggiustare e migliorare qualche elemento definendo maggiormente uno stile personale. Le orchestrazioni si erano fatte più magniloquenti e si erano meglio amalgamate nel songwriting, i ritmi epici avevano assunto un ruolo principale e a livello di tematiche si era imposto un occhio di riguardo per gli argomenti storici, in particolar modo legati agli antichi romani.
Quanto avevamo trovato in “Rvbicon”, ritroviamo in “Laguz”. Il processo sembra esser proseguito, rendendo il songwriting ancora più elaborato e stratificato con incisioni e sovraincisioni di strumenti e voci a creare un unicum sempre più ricco e profondo. Eppure, pur migliorando progressivamente la propria proposta sotto il profilo formale e strettamente tecnico, ci sembra che gli Ancient Rites si siano un po’ fermati.
Anche per quanto riguarda gli argomenti dei testi, il discorso è lo stesso, con canzoni che parlano sempre di vicende storiche, in special modo guerresche, spesso legate a doppio filo agli antichi romani.
In generale tutto questo non è necessariamente un male, “Laguz” rimane un signor disco che tanti gruppi possono solo sognare di comporre, capace di passare con una disinvoltura quasi imbarazzante dal black all’epic, dal sinfonico al folk, dal power al death, sempre mantenendo una qualità altissima. Alcune canzoni, come “Carthago Delenda Est”, la devastante “Von Gott Entfernt”, “Umbra Sumus” (con i suoi accenni gothic) o la conclusiva ballad “Fatum” basterebbero da sole a giusticare l’acquisto del disco. Gli Ancient Rites, inoltre, hanno creato un sound estremamente personale che li rende subito identificabili, cosa non da poco oggigiorno.
E allora cosa c’è che non va?
Davvero poco o nulla, tutto funziona e pure ottimamente, ma da questi belgi probabilmente ci aspettavamo di più. Questo è un po’ il problema con quelle band che ti abituano troppo bene e appena fanno un solo passo in avanti, invece di farne tre come al solito, ti sembra che siano rimaste immobili, se non addirittura che siano tornate indietro.
In conclusione “Laguz” suona come una conferma, in tutto e per tutto. Ci conferma che gli Ancient Rites sono un gruppo capace di scrivere veramente della grandissima musica, con capacità di passare da un genere all’altro come pochi altri al mondo. Ci conferma, però, anche la strada che i belgi avevano intrapreso già con il precedente “Rvbicon” e da essa, contrariamente a quanto la storia della band ci aveva insegnato, non si discosta quasi per nulla. Tutto è più ricco, scritto meglio, con maggior cura e precisione, tutto è prodotto meglio e più magniloquente. Eppure ci sembra che qualcosina manchi in termini di evoluzione, perché al netto di tutte le migliorie formali e tecniche che possiamo ascoltare, “Laguz” non ci sembra un passo in avanti così netto rispetto a “Rvbicon” come sarebbe stato logico aspettarsi, soprattutto dopo nove anni. Un gran disco, dunque, ottimo sotto tutti gli aspetti, che farà sicuramente i fan della band che avevano più apprezzato il loro ultimo lavoro, ma che potrebbe anche far storcere un po’ la bocca a tutti coloro che avevano osservato con stupore e approvazione la capacità degli Ancient Rites di continuare a cambiare ed evolvere da un disco all’altro.
Alex “Engash-Krul” Calvi