Recensione: Lamb of God
“Lamb of God”, l’ottavo album in studio dei Lamb Of God, era originariamente previsto in uscita per l’otto maggio ma, a causa della pandemia di Coronavirus che ha scombussolato i piani di un po’ tutto il Mondo, è stato riprogrammato per il diciannove giugno. A prescindere dai motivi commerciali che hanno spinto la Nuclear Blast ad attuare questo slittamento in avanti, alla fine il tutto è venuto a favore del full-length che, così, ha potuto godere di una promozione allungata e più approfondita.
Oltre a questa particolarità, “Lamb of God” è anche il primo lavoro che vede alla batteria Arturo “Art” Cruz, fresco sostituto di Chris Adler. Cosa non poco, giacché quest’ultimo ha pestato le pelli degli ‘agnelli di Dio’ per ben vent’anni anni consecutivi, il che non è un cambiamento insignificante. Soprattutto se inserito in una stabilità della line-up impressionante, la quale sfiora ora i ventun anni.
Considerati fra gli alfieri della ‘New Wave Of American Heavy Metal’, cioè del movimento che ha modificato alcuni dei dettami classici del genere per allinearlo ai gusti moderni degli ascoltatori, soprattutto per quelle intrusioni *-core che hanno dato vita al deathcore e al metalcore, nel corso degli anni al combo di Richmond è stata subito appioppata quest’ultima definizione. Metalcore.
Tutto quanto sopra per sottolineare che per affrontare “Lamb of God” occorrono semplicità e cervello libero da preconcetti. Solo così, infatti, si potrà cogliere l’idea di un disco molto, molto thrashy. Forse come non mai, nella carriera dei Nostri. Sebbene il metalcore – non melodico, da sottolineare a doppia riga anche se noto ai più – sia sempre una componente importante del loro stile, in alcuni momenti Randy Blythe e soci sfoderano un’attitudine quasi da Bay Area, come accade per esempio nella possente e hardcoriana ‘New Colossal Hate’ nonché nella slayeriana ‘Poison Dream‘. Song cadenzate nel contempo veloci, incisive, intense, tenute su da riff che segherebbero gli ossi di un elefante, pure. Cori anthemici, accelerazioni e rallentamenti, poi, ben conditi dal groove caldo e preciso di Cruz.
Allora, cos’è che differenzia i Lamb Of God dal Resto del Mondo thrash? Sempre lui, Blythe, cantante di enorme esperienza e grandissimo talento, capace di giostrare attorno alla musica con scioltezza e naturalezza. Proponendo uno stile tutto suo, unico, eretto sulla base di un tono stentoreo da cui si diramano harsh vocals, semi-growling, acuti felini, clean vocals. Il che, con tutto rispetto, non è bagaglio tecnico-artistico posseduto da tutti i vocalist, specificamente thrash, appunto.
La band è fautrice, sempre e comunque, di un sound potente, pulito, ordinato, che ha quasi completamente perso ogni forma di sperimentazione e contaminazione, se non qualche attimo in cui appare il ‘solito’ blues (‘Checkmate’). Del resto gli anni passati sulla strada, vicissitudini varie a parte, sono tanti e si fanno sentire: pochi altri gruppi, difatti, possono vantare una simile precisione balistica a supporto della composizione.
La quale, in questo caso, pare sfortunatamente priva di anima, di feeling. Come se fosse in corso un compito scolastico: alto livello teorico, scarso successo pratico. Tant’è che fra le tracce che compongono “Lamb of God” non ce n’è una che faccia battere il cuore, almeno a parere di chi scrive, benché il ritmo faccia muovere il piede in maniera irresistibile. L’insieme dei brani, in sé, non è male, e quindi può essere considerato sufficiente ma, duole scriverlo, appare sostenuto da un’unica motivazione: ottemperare a un obbligo contrattuale.
Una mezza delusione, insomma.
Daniele “dani66” D’Adamo