Recensione: Lambdroid’s Vengeance

Di Daniele D'Adamo - 11 Aprile 2015 - 19:18
Lambdroid’s Vengeance
Band: Bursa Lamb
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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50

Un’idea per nulla malvagia, quella degli ellenici Bursa Lamb, di ergersi a cibernetici difensori degli agnelli; tradizionali vittime sacrificali per scopi culinari durante il periodo della Pasqua cristiana.

In tale lasso di tempo, infatti, s’inasprisce la battaglia verbale fra chi ama poggiare sul braciere le braciole del suddetto animale, e chi invece vorrebbe mettere a cuocere lentamente questi ultimi. Schierarsi apertamente da una parte, pertanto, non può che attirare delle simpatie sicure, a prescindere da tutto e tutti.  

I Bursa Lamb, come suggerisce il moniker, stanno dalla parte degli ovini, difesi a suon di bordate musicali definite dalla band medesima ‘intergalactic deathsheep lounge music’. Band che, in effetti, consiste in un duo dagli improbabili war-name come John Baptist e Judas Iscariot, ovviamente riferiti ai racconti biblici giusto per restare in tema di resurrezione e quant’altro di simile.

Chi non risorge, purtroppo, è l’apparato uditivo degli ascoltatori di “Lambdroid’s Vengeance”, debut-album dei Nostri dalla coloratissima copertina. Sì, poiché, a dispetti della roboante auto-definizione più sopra riportata, Baptist e Iscariot propongono né più né meno di uno scontatissimo brutal death metal. Tirato per le orecchie da vocals suiniche le quali non fanno altro che aggiungere carne alla carne, ma in maniera aridamente trita e ri-trita.

Seppur suonato con perizia e abilità, tali da far nascere il dubbio che i due summenzionati ‘lamb defender’ non siano altro che due scafati e magari noti musicisti vogliosi di divertirsi in maniera anonima con i propri strumenti, “Lambdroid’s Vengeance” è un concentrato di cliché già sperimentati in abbondanza da centinaia di formazioni in giro per il Mondo. Anche e soprattutto negli anni passati. Ne deriva, quasi automaticamente, che sia davvero arduo trovare una nota originale e degna di attenzione nel marasma controllato che abbraccia “Ultimatum” e “Jesus Shepherd”.     

Un travolgente e totalmente amelodico brutal death metal che assomma riff thrashy arrotolati su se stessi, batteria lanciata alla massima velocità possibile, sempiterno e inintelligibile inhale, linee di basso trasparenti e poco altro, se non qualche inserto elettronico di natura cibernetico-spaziale.

Come se ciò non bastasse, anche le song non posseggono nulla d’interessante, di accattivante, tale da far scattare nella mente la voglia di ripetere qualche passaggio del sanguinolento platter. Che, dopo poco, scatena non tanto la voglia di partire per qualche crociata anti-carnivori, quanto di togliere il CD dal lettore per passare a sgranocchiare qualcos’altro di più succulento.

Un maiale?

Daniele “dani66” D’Adamo

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