Recensione: Land Animal

Di Roberto Gelmi - 5 Settembre 2017 - 10:00
Land Animal
Band: Bent Knee
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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70

Quarto album (il primo distribuito da InsideOut) per i Bent Knee, sestetto di Boston nato nel 2009 e ampiamente elogiato dalla critica internazionale come fautore innovativo di musica intrisa di “ingenuity and deliciousness”. Land Animal arriva ad appena un anno di distanza dal precedente Say So, s’intuisce come il gruppo americano voglia cavalcare l’onda del successo recente (hanno aperto anche nel The Dillinger Escape Plan‘s farewell tour). La stampa specializzata parla del loro sound definendolo una miscela unica di rock, pop, minimalismo e avant-garde. In effetti etichettare la loro musica come progressive è riduttivo, però è questa la coordinata più vicina per farsi un’idea a cosa si va incontro.
L’artwork, d’altra parte, è un bel biglietto da visita, e presenta un’improbabile scalata verso le alte sfere di un omino aureolato, che pare uno spiritello nipponico vestito all’occidentale. A livello dei testi, la band dice di aver voluto ritrattare la vita del XXI secolo (“a reality of people and nations in the midst of tumultuous change”) considerandone i problemi più urgenti: incertezza globale, conflitti familiari, razzismo, disuguaglianze sociali, le relazioni mediate dalla tecnologia… Ma il vero obiettivo è quello di unire gli ascoltatori (di differenti culture, nazionalità e interessi) attraverso la musica e trasmettere loro un empito di speranza, mai solo nelle sue lotte quotidiane. Un inno alla musica come panacea universale, intento decisamente nobile e già l’identità della band è significativa: sei musicisti, tra cui un violinista, una cantante tastierista (è lei il vero fattore determinante vedremo), e un sound designer a pieno titolo in line-up. Detto questo, forse la poetica degli statunitensi pecca di megalomania, il titolo Land Animal vuole riferirsi al lato istintuale ancora presente nell’Uomo e che va “purificato” per entrare in piena sintonia con la modernità tecnologica del futuro in cui già viviamo. Una simile visione irenica del progresso non troverebbe molti sostenitori in Italia…

Per di più la cantante definisce Land Animal un album che parla all’anima, un album immediato e subito gratificante, a differenza del precedente Say So. Non è così, vediamo perché.
Terror Bird” è un opener che definire pieno di soprese sarebbe riduttivo. Tutto è giocato su un incedere sornione e il subentrare inaspettato degli strumenti. La voce di Courtney Swain dà carattere al pezzo arrivando nel finale a vibrati animaleschi decisamente spiazzanti. L’attacco di “Hole” è pura follia, tre minuti di musica circense e giocosamente effimera. Dissacrante (?) e funky la seguente “Holy Ghost”, attorno al min. 3:22 c’è un momento solistico che ricorda gli Yes in salsa 2.0, ma il brano risulta in definitiva troppo esile. I Marillion sono tra gli influssi più evidenti ascoltando “Insides In”, brano onirico e in levare con un flavour naif; da segnalare il finale alla Porupine Tree e ultimi secondi che sembrano presentare un didgeridoo impazzito.
Il disco prosegue, impegnativo ma non scontato. Stupisce il ruolo da protagonista della vocalist in “These Hands”, testi raffinati (tutta da gustare la pronuncia perfettamente scandita) e un afflato retrò da non sottovalutare (a tratti sembra di essere catapultati su un palco di Broadway). Si alternano momenti eterei ad altri aspri e ruvidi, nel finale il solito crescendo cacofonico. La title-track ha una parte centrale emozionante con armonie catturanti, per il resto si respira aria di casa Frost e ancora Marillion. Un gioiellino “Time Deer”, con un main-theme cantato memorabile e ammaliante. Uno dei pezzi più coesi e convincenti del disco.  Seconde voci e ritmo più sincopato in “Belly Side Up”, track nervosa e non troppo fluida; disturbante ed eccessivamente sperimentale “The Well”, ancora con rimandi, di nuovo, agli Yes. Francamente non si è invogliati ad affrontare la traccia finale. Muniti di coraggio ascoltiamo la conclusiva “Boxes” che si rivela una composizione sui generis, con un lungo crescendo nottambulo e ultimi secondi sorretti solo da un fill minimalista di batteria. Come epilogo non ci siamo proprio.

Cosa dire in ultima analisi? Land animal è una creatura difficile da inquadrare, a fronte di alcuni aspetti positivi (la voglia di proporre qualcosa di “nuovo” legato all’attualità), ce ne sono altri che non fanno ancora dei Bent Knee una band d’applausi (come i The Tea Party, gli Indukti, o i Leprous per guardare in casa InsideOut). La voce della main vocalist e tastierista anche se originale e duttile, alla lunga stanca, soprattutto sui toni alti, spesso troppo sguaiati. L’album merita un ascolto, ma non vince la sfida della longevità.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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