Recensione: Land Of Broken Hearts
«I’m just a number, I don’t know my name.
Unknown faces a part of the game.
Out in the desert the madness begins,
Who’s talkin’ mercy? We’re playin’ to win…»
I Royal Hunt del 1992 sono molto diversi dai Royal Hunt che sul finire degli anni novanta avrebbero realizzato il capolavoro ‘Paradox’. I Royal Hunt del 1992 sono una giovane band danese allo sbaraglio, senza credenziali, senza pubblico, apparentemente senza futuro. Il loro primo album è già fuori moda quando esce nei negozi: nessuno lo vede, nessuno lo ascolta. Oggi, diciotto anni dopo, sembra che le cose non siano cambiate più di tanto.
Anno di grazia 1992: gli anni ottanta sono finiti ma ‘Land Of Broken Hearts’ non se n’è accorto. I suoi suoni sono un’aperta sfida a un mercato dominato da altri trend – il grunge di Seattle o il funk-rock dei Red Hot Chili Peppers, citati nell’intro radiofonica alla prima traccia. Il trademark dei futuri Royal Hunt è ancora in là a venire. Non si parla ancora di progressive o di metal. A ispirare la penna di Andre Andersen, già mente creativa unica della band, è l’eco di altre epoche: pomp rock dagli anni ’70, AOR e shred neoclassico dagli ’80. Al suo fianco Steen Mogensen (basso) e Kenneth Olsen (batteria), che a lungo gli resteranno fedeli, insieme al misconosciuto Henrick Brockmann, voce calda e ruvida dal vago accento teutonico, contraltare eccellente per brani sovraccarichi di melodia. Il carattere dominante dei primi Royal Hunt sono già le tastiere, che non si curano troppo di soverchiare le chitarre – allora suonate, oltre che dallo stesso Andersen, anche da una serie di ospiti dai nomi più o meno oscuri.
Si aprono le danze. ‘Running Wild’ entra di gran carriera con i suoi patinatissimi tastieroni made in eighties, manna per orecchie annichilite dal rock (rock?) adolescenziale e depresso della decade successiva. Subito si definiscono quelli che saranno i tratti forti dell’album: chitarre fini e leggere, che emergono soprattutto in assolo; autorevoli linee di tastiera per indicare la via alle melodie; ritornelli da arena da cantare a squarciagola fin dal primo passaggio. L’orecchiabilità estrema è una prerogativa assoluta, come conferma senza remore ‘Easy Rider’, snella e asciutta ma subito di buon ascolto. La struttura del brano è invero piuttosto semplice, a tratti anche acerba, eppure dà prova della virtù cardinale del giovane Andersen: la virtù rara e quasi magica di azzeccare tutte le melodie. Dubbi? Lasciate che ‘Flight’ li spazzi via in un sol colpo. Una hit di proporzioni bibliche, chissà perché dimenticata sotto le macerie del tempo. Trascurate pure gli incalzanti pattern di batteria e le strofe battagliere e i funambolici assolo incrociati: un brano così merita il plauso dei posteri anche solo per il suo refrain, semplicemente pazzesco.
Raggiunto lo zenit già con la terza traccia, è il momento di tirar il fiato. Magari con un altro pezzo da novanta: ‘Age Gone Wild’ muta completamente il clima, adagiandosi su sonorità più pacate, con un’introduzione delle sei corde ricca di pathos. Se l’interpretazione di Borckmann richiama qui alla mente il miglior Bon Jovi, il piglio intimista, quasi menestrellesco delle melodie tende una mano verso i Magnum di ‘On A Storyteller’s Night’. Da antologia il finale, che al duplice, meraviglioso solo di chitarra acustica ed elettrica dà seguito con un irresistibile crescendo di cori – un tratto destinato a diventare punto fermo dei Royal Hunt a venire. Altro cambio di registro con la strumentale di scuola barocca ‘Martial Arts’, piccolo classico nei live show, dominato da un testa a testa senza esclusione di colpi fra chitarre e tastiere. Tecnica impressionante, ma soprattutto feeling: consapevolmente o no band come gli Stratovarius devono non poco a brani come questo.
Si torna a respirare l’odore di pelle sudata e locali notturni con ‘One By One’, uno dei brani più avvincenti del set. Il refrain anthemico viene preparato a lungo e infine ingabbiato da un drumming fantasioso e preciso, che lo stringe in un’impenetrabile prigione di cristallo. I toni si fanno improvvisamente più dark con l’up tempo ‘Heart Of The City’: ombre nella strofa, luce nel bridge – poi il coro che non t’aspetti, riflessivo, intimista, chiuso da un’inquietante nota oscura. Oltre alla maturità delle strutture, qui sorprendente, val la pena richiamare l’attenzione sull’intensità dei testi, che mai s’abbassano al livello della classica love-song radiofonica. E non fatevi trarre in inganno da un titolo come ‘Land Of Broken Hearts’. Si parla di guerra, di soldati e di vittime, in un brano drammatico, marziale nell’andatura, teatrale nei toni lirici. Anticipando qualcosa del venturo ‘Moving Target’, la struttura si fa più articolata e multiforme: strofa dilatata e desolante, bridge rock-oriented, coro gonfio di pathos – e ancora: pausa sinfonica per sola voce e organo, con gran finale in epico crescendo, ucciso dal tiro a segno finale.
Giusto il tempo di riprendersi con una seconda strumentale, ‘Freeway Jam’, con incalzante staffetta neoclassica fra chitarre e tastiere, prima di chiudere con un’altra hit dimenticata. Tutte le caratteristiche dei primi Royal Hunt sono elevate all’ennesima potenza nella conclusiva ‘Kingdom Dark’: l’epos pomposissimo delle tastiere, la delicatezza romantica degli arpeggi, la cantabilità del refrain – sì, persino l’ingenuità delle melodie. I tasti d’avoriori si dividono su molteplici linee, chiamando in causa anche fiati e ottoni, mentre i ruffianissimi cori osano chiudersi ammiccando un danzereccio “Hey!”. Il fatto che l’Andersen di oggi mai potrebbe rimettersi a comporre qualcosa di simile non sminuisce minimamente il fascino ipercalorico di un anthem helloweeniano fino all’osso.
La prima stampa del CD su Rondel Records (a differenza di quella su X-treme) prevedeva due ulteriori bonus track, tutt’altro che trascurabili: la AOR-oriented ‘Stranded’, che uno straordinario DC Cooper avrebbe reso immortale nel live ‘1996’, e l’incalzante ‘Day In Day Out’, per la quale all’epoca fu realizzato anche un videoclip. L’album sarebbe stato ristampato in seguito anche da Majestic Entertainment (all’epoca sotto SPV) con ulteriori tracce aggiuntive, senza che tuttavia l’atteggiamento del pubblico verso la release mutasse più di tanto.
Disco spaventosamente sottovalutato di una band spaventosamente sottovalutata, ‘Land Of Broken Hearts’ merita di essere riscoperto da tutti gli amanti dell’AOR e del rock melodico di classe. E sarebbe anche ora di tributare il giusto riconoscimento ad Andre Andersen, artista straordinario per talento e umiltà – qualcuno si è accorto che lui e i Royal Hunt sono scesi in Italia lo scorso anno, e che a salutare il loro clamoroso concerto c’erano si e no trenta persone? –, magari recuperando questo gioiellino fuori dal tempo, di cui chissà perché nessuno parla mai.
«Run, you better run as far as you can,
Why – I’m gonna die and nobody cares.
Stop wastin’ my time, I’m gonna fly high,
You’ll find out, the way to survive –
Follow the light tonight!»
Riccardo Angelini
Tracklist:
1.Running
2.Easy Rider
3.Flight
4.Age Gone Wild
5.Martial Arts
6.One By One
7.Heart Of The City
8.Land Of Broken Hearts
9.Freeway Jam
10.Kingdom Dark
Bonus track:
11. Stranded
12. Day In Day Out