Recensione: Language
Terzo album per la giovane band di Indianapolis, votata a un genere piuttosto particolare e volto a una piccola nicchia di un certo tipo di progressive metal, anzi post rock (qui di metal c’è davvero poco) parecchio figlio della moda del momento a dire il vero: quello coi suoni cristallini e pulitissimi, quello con voci pseudo malinconiche e qualche growl qua e là per far vedere che si è anche cattivoni.
Quello con tempistiche tanto care ai Meshuggah e quello che abusa dei mid tempo come se non esistesse altro modo di impostare una sezione ritmica; quello che dovrebbe essere un’evoluzione di qualche astruso strafalcione generazionale che finisce in ‘core e chistu ‘core e quello che si è saturato ancora prima di iniziare. I Contortionist non suonano male, anzi, riusciranno però a dare personalità a ciò che risulta davvero cannibalizzato oltremodo?
Il disco si apre con “The Source”, che non è altro che una breve intro acustica con vocalizzi quasi new age ad accompagnare il tutto nel più perfetto anonimato; sembra quasi che si voglia parafrasare l’intro di “The Parallax 2” dei Between The Buried And Me, con l’unica piccolissima differenza che là poi partiva “Astral Body”, qui “Language I – Intuition” che da titolo ha un che di profetico. L’ascoltatore inizia infatti ad intuire ben presto che non ascolterà una canzone facile ma una massiccia dose di oltre cinque minuti di cloroformio puro, da proporre in sostituzione al Propofol nelle sale operatorie.
L’inizio non è neanche male, con una chitarra in solitaria che rimanda a “Animal As Leaders” e compagnia andante. Il poi però è un problema: il brano morde come un’ottuagenaria senza dentiera. Un mezzo prog rock onirico e leggerino, quasi da classifica e nemmeno troppo convinto, né metricamente né ritmicamente. Da segnalare soprattutto le voci, talmente lagnose da risultare parecchio irritanti. E’ un po’ quello stile di voce anglosassone padroneggiato da gente come Steven Wilson, per dirne uno, che in questo contesto finisce per tirare presto la catenella e buttare l’attenzione nello sciacquone. Pessimo inizio. “Language II – Cospire” sembra iniziare con un altro piglio, quasi djent e un pelino più fantasioso. Buoni i fraseggi che finiscono però per capitolare in un riff mono nota con un growl onestamente non buono. Ci si aspetta un’accelerazione che non arriva, finendo per essere martoriati da un pattern simil Meshuggah che collima nella ripresa del growl con un paio di fraseggi. Il ritorno alle clean è terrificante e quasi ridanciano, ci si chiede dove la band voglia arrivare. “Integration” è aperta da una trentina di secondi tastieristici, che fanno poi da tappeto alla band quando entra; non ci si scosta di un millimetro da ciò che è stato proposto finora. Buona la tecnica offerta dalla partitura, che finisce inevitabilmente per essere mielosa, quasi falsa. Buono il ponte strumentale, figlio di intrecci chitarristici puliti e sognanti, ma il growl seguente proprio non decolla. Di gran pregio invece l’intermezzo in cui viene scomposto un tempo in 2/4 ad uso e consumo di un notevole divertimento stilistico, e finalmente si sente una band ispirata anche nel finale.
“Thrive” cambia registro alle clean, che diventano appena più cupe, offre dei buoni inserti ma troppo corti; si ha sempre l’impressione che la band abbia ottime trovate ma con la fretta di arrivare a qualcosa che finisce sempre per essere controproducente. Si alternano passaggi geniali a momenti che definire pacchiani e artefatti è dire poco. Buono il ponte ai confini con l’ambient, evocativo e giustamente seguito da un pattern di chitarra che, invece di tre accordi aperti, avrebbe poi richiesto ferocia per essere pienamente valorizzato. “Primordial Sound” fa quasi venire voglia di rimandare a “Demon” dei Gazpacho per trovare le differenze sulla gestione vocale di certi tipi di melodie e al come si possa essere mielosi e scrivere un capolavoro.
“Language” è un disco con un piede in due scarpe: post rock e “‘core e chistu ‘core“, e non convince appieno in entrambi i frangenti.
“Arise” non c’entra ovviamente niente con quella ben più famosa dei Sepultura dei tempi che furono, ma si rivela comunque un brano abbastanza riuscito, sia a causa della giusta durata (quattro minuti scarsi contro gli oltre cinque delle altre composizioni) che del buon dosaggio di partiture estreme e non. “Ebb & Flow” inizia ricordando vagamente i guizzi di Robert Fripp per poi assestarsi in un mood clean e quasi jazzato che ha la funzione di servire da crescendo per poi fare posto all’imminente sfuriata. Si sale e si scende quasi subito in favore di un bridge progressivo davvero ottimo e in grado di calamitare l’ascoltatore per tutta la sua durata; buono il finale, che però avrebbe richiesto una linea vocale più ispirata e ficcante.
Concludono il disco gli oltre sette minuti di “The Parable”, che non riescono nell’intento di bissare la qualità delle due tracce precedenti, finendo a questo punto del minutaggio per tediare oltremodo e indurre a cambiare disco nella propria playlist (lettore cd sarebbe meglio).
Che dire ora? Osanniamo perché la proposta è alternativa? Stronchiamo perché la proposta è alternativa all’alternativa? In alternativa, offriamo una sufficienza non troppo piena: sono molti ancora gli aspetti da limare nella proposta dei Contortionist.
Partiamo da un suond tutto tranne che personale e riconoscibile, una sezione ritmica abbastanza anonima, chitarre quasi mai in primo piano e memorabili e una voce che si rivela il più grande difetto degli americani. Non incisiva in growl, troppo finta in clean; le idee insomma non sono ancora completamente chiare. Un ibrido di post rock e musica estrema avrebbe richiesto dosi diverse e idee sfruttate meglio strettamente a livello di metrica.
Così ci accontentiamo di un brodino.