Recensione: Lantlôs

Di Pier Tomasinsig - 2 Marzo 2009 - 0:00
Lantlôs
Band: Lantlôs
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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82

La maggiore gratificazione per un recensore risiede, a parere di chi scrive, nella possibilità di portare all’attenzione del

pubblico le nuove leve più promettenti, gruppi ancora poco conosciuti ma ricchi di idee e di talento. Proprio per tale ragione fa

sempre piacere trovarsi tra le mani lavori come questo omonimo full-length dei tedeschi Lantlôs, un album d’esordio

particolarmente valido e interessante, a riprova del fatto che la sinora fertile scena teutonica ha ancora molto da dire in ambito

black.
Ed è proprio questo il genere a cui è dedita la giovane band di Rheda formata, ai tempi in cui “Lantlôs” è stato registrato, da

Herbst e Angrrau, coadiuvati da Alboîn dei conterranei Geist in qualità di session-vocalist, mentre

attualmente il compito di occuparsi del cantato dovrebbe essere assolto da Tom Innocenti, subentrato ad Angrrau dopo

la defezione di quest’ultimo.

Black metal, si era detto: una definizione di per sé appropriata, purché la si integri con le doverose precisazioni. Le radici

della musica dei Lantlôs di certo affondano saldamente nel black, quello di scuola norvegese in particolare, ma il genere

viene qui reinterpretato con un’attitudine moderna ed eclettica, rifuggendo non pochi luoghi comuni, fino a diventare qualcosa di

sensibilmente diverso. L’impressione è che, nel processo che ha portato i nostri a definire la propria identità musicale attraverso

l’elaborazione di diverse influenze, il rock abbia avuto quasi altrettanto peso del black metal; basti pensare all’importanza

centrale che il ruolo del basso riveste in quest’album, conferendo al tutto una profondità e una pienezza nient’affatto comuni per

il genere. Quello dei Lantlôs è dunque un black sui generis, che gioca sull’accostamento di passaggi oscuri e

violentissimi e linee melodiche raffinate e intrise di insospettabile dolcezza.
L’aspetto che però risalta maggiormente è la massiccia presenza delle chitarre acustiche, variamente utilizzate tra suggestivi break

atmosferici e crescendo di grande intensità, oppure in sovrapposizione a riffing ferocissimo e blast-beat incalzante, andando così a

creare un contrasto particolare e molto affascinante. Proprio in questa presenza costante della componente acustica, del resto, si

possono avvertire influenze in parte riconducibili, oltre che ai primi Opeth, soprattutto agli Agalloch, con i quali i

nostri condividono l’impronta fortemente malinconica e la non trascurabile capacità di trasmettere all’ascoltatore sensazioni

profonde e mai banali. E certamente i Lantlôs nelle loro composizioni puntano non poco su questa costante tensione emotiva,

senza però che ciò vada ad intaccare minimamente la natura estrema della loro proposta musicale.

Proprio l’attacco iniziale dell’opener þinaz Andawlitjam sembra voler fugare ogni dubbio in proposito: una bordata

improvvisa di black metal ossessivo e inquietante, dai ritmi molto sostenuti, che investe l’ascoltatore come un immondo sciame di

insetti. Un assalto breve quanto incisivo che va a spegnersi, repentinamente com’era partito, in un mid-tempo gelido, ipnotico e

straniante in cui si respira un senso di desolazione che potrebbe riportare alla mente certe suggestioni tipiche dei

Katatonia. A metà del quinto minuto la traccia muta nuovamente, l’atmosfera si fa meno cupa e il ritmo più vivace: una lunga

digressione in cui la chitarra acustica torna protagonista, finchè un vorticoso riffing black e lo screaming rabbioso e sofferente

di Alboîn, reso ancora più duro, più atroce, dalla scelta di cantare in lingua madre, tornano a spazzar via ogni residua

speranza.
Se þinaz Andawlitjam ci ha presentato tutti quelli che sono gli ingredienti della ricetta offerta dai Lantlôs, la

successiva Mittsommerregen li riprende e li rimescola in modo diverso. A differenza del pezzo precedente, che ben si prestava

ad essere suddiviso in “movimenti” ben definiti e nettamente distinti, qui la struttura si fa maggiormente fluida, più libera e meno

prevedibile, incentrata su un leitmotiv che viene variamente ripreso e rielaborato nel corso della canzone e attorno al quale

arpeggi acustici, furiosi stacchi black e toccanti aperture melodiche si alternano senza sosta. E senza sprecare neanche un

passaggio.
Le prime due tracce certamente colpiscono per intensità e per maturità compositiva, ma è con Ruinen, già presente nel demo

del 2007 “Îsern Himel”, che si tocca l’apice del disco. Il brano, intriso di incredibile pathos e drammaticità anche nei passaggi

più tirati, si apre su una nota lunga e acuta che introduce quello che è probabilmente il miglior crescendo di tutto l’album, dove

basso, batteria e chitarra acustica si muovono all’unisono, con grazia, in un amalgama praticamente perfetto. Poi, spietatamente,

questo delicato equilibrio si infrange quando Alboîn inizia a cantare con voce angosciata: «Hinter mir die hunde/ und vor

mir liegen trümmer/ wo kehr ich ein?/ Erschöpfung! Ich sinke auf die knie…» (dietro di me i cani/ e davanti a me si stendono

macerie/ dove posso fermarmi a riposare?/ Sfinimento! Cado in ginocchio…). Il resto è un susseguirsi di emozioni intense e

contrastanti, tra preziosi momenti di quiete e abissi di disperata violenza.

Si potrebbe parlare ancora della splendida ed emblematica Kalte Tage o della conclusiva -e strumentale- Ëin, in cui

i riferimenti agli Agalloch si fanno quasi palpabili, ma non mi soffermerò oltre nell’analisi delle singole tracce, perchè

ormai le caratteristiche di questo primo, omonimo album dei Lantlôs dovrebbero essere ben chiare. Siamo di fronte a un

affresco squisitamente crepuscolare, la cui forza risiede nel saper rappresentare con enorme verve espressiva, nella musica come nei

testi, la decadenza del nostro mondo e della nostra civiltà.

Così, nella mente dell’ascoltatore iniziano a prendere forma le nere e opprimenti spoglie di una città morta, in cui meste figure

si aggirano senza meta, simili a diafani spettri. Il medesimo scenario così abilmente raffigurato nello splendido artwork di Fursy

Teyssier (che ha collaborato anche con band quali Alcest, Peste Noire e Amesoeurs). Ma sono proprio le parole dello stesso

Herbst, sempre in Ruinen, che ci descrivono nel modo più chiaro le sensazioni di abbandono e smarrimento che la musica

dei Lantlôs riesce a trasmettere: «Wer bin ich, der es nicht zu träumen vermag?/ Wer bin ich, der dem höchsten gut den

rücken kehrt?/ Wer bin ich, unter dem grauen,stählernen himmel?» (Chi sono io, che non è in grado di sognare?/ Chi sono io, che

al bene supremo volta le spalle?/ Chi sono io, sotto questo grigio cielo d’acciaio?).
Che altro aggiungere? Solo un avvertimento: questo è un album dalla personalità fortissima, psicologicamente molto impegnativo, da

assimilare poco per volta assaporandone ogni sfumatura, senza commettere l’errore di liquidare in uno o due sbrigativi ascolti

quello che è uno dei migliori dischi black che siano usciti nel 2008 da poco trascorso.

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Tracklist:

1. þinaz Andawlitjam 09:04

2. Mittsommerregen 08:09
3. Ruinen 08:34
4. Kalte Tage 06:59
5. Ëin 06:59

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