Recensione: L’appiccato / Il cappello ha tre punte
I siciliani Fiaba sono una delle punte di diamante del progressive rock del nostro paese. Forse a causa di un destino avverso, misteriose congiunzioni astrali o complotti massonici internazionali, non sono mai riusciti ad emergere e raggiungere la meritata gloria; ciononostante, sono vent’anni che continuano, con ritmi estremamente dilatati, a pubblicare ottimi album che ottengono il favore dei critici e degli ascoltatori. In attesa del loro prossimo disco, Jolly Rogers Records pubblica una raccolta dei primi due album del gruppo, “XII – L’Appiccato” (il cui titolo viene semplificato con la rimozione della numerazione romana) e “Il cappello ha tre punte“. E’ doveroso precisare che quest’edizione non differisce in alcun modo dai dischi originali: si tratta di una rimasterizzazione, ma non ci sono contenuti aggiuntivi di sorta; è una semplice raccolta di due album che, ormai, sono difficili da reperire. Se possedete già i due dischi, potete soprassedere; se, invece, avete un buco nella vostra discografia o non avete idea di chi siano i Fiaba e volete approfondire, continuate pure con la lettura! Se avete scelto di proseguire, magari vi faranno piacere alcune note addizionali sulla band: fondati nel 1991 su impulso del batterista Bruno Rubino, si sono distinti subito grazie ad un sound estremamente peculiare, un progressive rock dalle forti tinte folk e medievali, con la curiosa (e azzeccata) scelta stilistica dell’abbandono totale delle tastiere. Per quanto riguarda le tematiche affrontate, nomen omen est! I Fiaba trattano, per l’appunto, di fiabe, storie fantastiche, perlopiù riconducibili al folklore nostrano, popolate di folletti, mostri, streghe e spiritelli; non sempre la trama è completamente comprensibile senza conoscere il racconto originale, ma raramente ciò risulta lesivo ai fini dell’ascolto.
L’Appiccato
Il primo disco della raccolta risale all’ormai lontano 1994. La copertina originale de “L’Appiccato”, con l’omonimo Arcano Maggiore dei tarocchi, è senza dubbio la matrice d’ispirazione per quella di questa antologia: caratterizzata da una scarna semplicità, un bianco e nero su cui risalta solo il nome della band, ben esemplifica le sonorità di questo debutto discografico, contraddistinto da trovate ricercate, ma ben lontane dagli appesantimenti barocchi che sono il marchio di fabbrica di tanti gruppi progressive. “Il richiamo dello stagno” è la vivace apertura del disco, un brano saltellante e brioso, una breve introduzione che ci catapulta direttamente nel vivo del disco con “C’è un posto nel bosco”, pezzo che chiarifica seduta stante quello che è il suono dei Fiaba: vocalizzi puliti su una base melodica che alterna momenti veloci e pompanti ad altri più riflessivi e contenuti. A fare da padrone sono la voce di Brancato e le chitarre, che si rincorrono, si sfidano sovrapponendosi e si allontanano l’un l’altra, in una sorta di balletto strumentale. Il ritmo da ballo popolare dell’introduzione de “Il signore dei topi” lascia presto spazio ad un brano cadenzato, bella la base ritmica di fondo e i riff festosi.
Più cupo “Lo spaventapasseri”, abbandona i precedenti schemi e scivola verso un’atmosfera più buia, formalmente simile ai brani precedenti, ma più inquietante, rallentata e ossessiva nell’esecuzione. “Viene l’angelo” è una nenia che, francamente, non mi ha mai particolarmente convinto; musicalmente scarna, come è lecito aspettarsi da una litania, non suscita particolare emozione né per il testo né per l’impatto complessivo. Un piccolo passo falso. Un’apertura massiccia caratterizza “Il fauno bevve l’acqua della sorgente”, perfetto incipit per una canzone che continua a picchiettare deciso nell’orecchio dell’ascoltatore, forse un po’ ripetitivo nella struttura, ma certo gradevole. Il pezzo forte dell’album è la lunga “I sogni di Marzia”, suite di quasi quindici minuti, caratterizzata da un pluristilismo notevole: un lento crescendo che, partendo da un’apertura lenta e assillante, sfocia in un’esplosione sonora decisa, quasi epica. La musica accompagna perfettamente la narrazione, rallentando e accelerando quando necessario, Brancato si esprime al meglio in questo brano, spaziando con la voce da cori pieni e corposi a malevoli versi di gnomi; anche le chitarre di Catena e Bonfiglio mutano spesso la loro caratterizzazione, dai morbidi arpeggi iniziali ai suoni distorti che si affastellano prima della lenta, onirica conclusione. In un brano così lungo, tutti hanno l’occasione di mostrare le proprie doti; la mente del gruppo, Rubino, amministra egregiamente il proprio ruolo di batterista, scandendo il tempo senza sbafi e senza prevaricare i propri colleghi; anche il basso di Capodieci si prodiga in riff interessanti e per nulla banali, condendo e arricchendo i fraseggi musicali degli altri musicisti.
Il Cappello ha tre punte
Questo disco è stato già abbondantemente eviscerato da Silvia Graziola in una sua precedente recensione; Un ulteriore approfondimento sarebbe solamente un egocentrico dilungamento. Mi limiterò, pertanto, ad una sintesi: il disco mostra una certa crescita a livello tecnico e compositivo dovuta, probabilmente, anche alla maggiore propensione ad osare dopo il successo del primo disco. Tutti gli aspetti caratteristici del suono dei Fiaba vengono rinnovati in questo disco: voce pulita ed in grado di arrampicarsi su costruzioni sonore non sempre immediate, chitarre in grado di riproporre sonorità disparate, dalle tenui melodie agli assalti più violenti, sezione ritmica che spazia senza timore dal martellamento all’accompagnamento quasi d’atmosfera; nonostante ciò, il suono appare più curato e raffinato. Anche in questo disco mancano le tastiere, decisione peculiare in un gruppo progressive, e il loro suono viene sopperito da quello degli altri strumenti; questa scelta, che potrebbe far storcere il naso a qualcuno, riesce secondo me a caratterizzare in maniera unica il suono di questo gruppo, rendendolo immediatamente riconoscibile, anche senza prestare attenzione alla voce del cantante, anch’essa piuttosto ben definita.
Di solito, è sempre arduo tirare le somme e decidere come concludere la disamina di un disco, figuriamoci di due! In questo caso, però, il duro mestiere del recensore è facilitato dall’indubbia qualità degli album, non è necessario disperdere le proprie energie in particolari calcoli, soppesando i diversi pregi di un disco e i suoi difetti: i Fiaba sono un gruppo qualitativamente equilibrato. Ottimi dal punto di vista della composizione, della realizzazione e dell’esecuzione, hanno davvero poche pecche; potrei citare l’abuso del vocalizzi riempitivi, sillabe senza senso cantate sopra la melodia per accompagnarla, o la saltuaria incomprensibilità dei testi, ma si tratterebbe solo di cercare il pelo nell’uovo. Questi due dischi meritano di essere nella raccolta di qualunque amante del progressive, specialmente se alla ricerca di sonorità non trite e ritrite. Gli appassionati del quattro quarti a tematica sesso, birra e rock ‘n’ roll, farebbero meglio ad accostarsi al prodotto con cautela, potrebbe piacergli!
Damiano “kewlar” Fiamin
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Tracce:
01 – Il richiamo dello stagno
02 – C’è un posto nel bosco
03 – Il signore dei topi
04 – Lo spaventapasseri
05 – Viene l’angelo
06 – Il fauno bevve l’acqua della sorgente
07 – I sogni di Marzia
08 – L’omino di latta
09 – Turpino il mostro
10 – Il cappello ha tre punte
11 – La rana affogata (morte di Ranerò)
12 – Il segreto dei giganti
13 – La profezia
14 – Il passo della gallina
15 – I cento stivali
16 – Hanno ammazzato il drago
17 – Scerrinath il fiore delle bugie
Formazione
Giuseppe Brancato – voce
Massimo Catena – chitarra
Carlo Bonfiglio – chitarra
Giuseppe Capodieci – basso
Bruno Rubino – batteria