Recensione: Le Naufrage
[…] Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
[Giacomo Leopardi, L’infinito, 1819]
Naufragio, quale naufragio? Qual è lo sprofondare narrato dai francesi Opprobre nel loro debut-album “Le Naufrage”?
È quello dell’anima, quello definitivo. Finale. Quello che porta agli abissi che seguono la morte seconda, la morte spirituale. Il canto di Olivier è il pianto degli angeli (‘Discerner’), commovente, struggente, che porta alle lacrime. Salate come l’acqua del mare. Amare. Testimoni di una ricerca eterna di ciò che il rapimento di ciascun essere umano, prima o poi, non riesce a raggiungere. Bloccato dall’assenza di gioia, dall’infelicità.
Emozioni forti, intense, profonde, che solo il black metal può tirare fuori dal cuore del cuore. Black metal modernissimo. Quello post dell’oramai leggendaria scuola transalpina. Il quale ha saputo incanalare in musica la rabbia senza fine di chi si scontra continuamente contro il muro dell’oscurità, oltre quale vive la non-gioia.
Rispetto alla gran parte dei nocchieri del post-black, quello degli Opprobre non è particolarmente melodico. Anzi, spesso, le dissonanze sono così incisive da sembrare, quasi, delle stonature (‘Abysses’). Ma, ovviamente, così non è, giacché il genere trangugia, come labbra assetate dal sole del deserto, tecnica sopraffina. Esige classe, talento, capacità innate di vedere ciò che gli altri non vedono, di sentire ciò che gli altri non sentono, di percepire ciò che gli altri non percepiscono.
Cieca e muta Umanità, persa nel proprio vuoto, contrassegnato da innumerevoli catacombe del nulla.
L’Abisso Blu, luogo misterioso ove Opprobre trasbordano solo gli eletti, è, al contrario, zeppo di sentimenti, di urla silenziose, di sogni infranti, di pianti senza tempo. La forza dirompente delle chitarre dello stesso Olivier e di Clément macinano riff arcaici, rubati agli incubi dei Titani per erigere le loro cattedrali di suono. Costruzioni pagane antiche di eoni, che hanno resistito alla forza dirompente di un drumming a volte selvaggio grazie alle robuste fasciature intessute dai sintetizzatori.
Gli Opprobre, oltre a saper mirabilmente volare a pochi centimetri dalle onde dell’oceano, sanno irrigidire il proprio stile per sfidare gli elementi, per attraversare l’ignoto mediante l’energia devastante del loro black metal spinto, con la massima potenza, all’altrettanto massima velocità. Oltre la sfera del suono (‘L’Inconnue’). Per poi rallentare, prendere fiato, riflettere, odorare l’ozono nell’aria e quindi riprendere il viaggio cosmico con maestose accelerazioni, dalle traiettorie impossibili.
Le lisergiche parti ambient, come l’incipit di ‘Opprobre’, allargano smisuratamente l’apertura mentale, costringendo la mente medesima a proiettare nel Cosmo la propria essenza vitale per poi essere lanciata alla velocità della luce a cozzare le stelle, per l’annichilazione terminale. Durante queste spinte iperboliche, gli ‘Opprobre’ spostano il cursore dei BPM della batteria e dei rombi del basso al massimo possibile. È la forza motrice che il quartetto d’oltralpe riesce a produrre in quantità sovrabbondanti. Condizione necessaria per compiere il salto nell’Abisso, quello Blu, e lì rimanervi per sempre, nei secoli dei secoli, in eterno. A rimirare, ancora una volta, il pianto degli angeli le cui lacrime, dorate, altro non sono che la resa a un rapimento dell’anima di un uomo.
Incredibile, questo black metal iniettato di post-black. Si vive, si sogna, si lotta, si segue ostinatamente il proprio rapimento, si perde, si muore.
Visionarietà ai massimi livelli, musicalità straziante. Oltre agli angeli, anche le stelle piangono e, rimaste sole, cadono… cadono… cadono…
Daniele D’Adamo