Recensione: Le Sacre Du Soleil Invaincu

Di Alessandro Rinaldi - 9 Aprile 2025 - 0:20

Il progetto dei Neptunian Maximalism nasce in Belgio, nel 2018, dalla mente visionaria del polistrumentista Guillaume Cazalet e dal sassofonista Jean Jacques Duerinckx. Un progetto di difficile collocazione, perché i nostri hanno mutato pelle negli ultimi sette anni, attraverso cambi di line up e proposte musicali diverse.

Le Sacre Du Soleil Invaincu è stato registrato in una chiesa di Londra alla fine del 2023 e si propone di esplorare la musica classica indiana attraverso strumenti elettrici e tradizionali.  Lo studio di Guillaume sotto la guida del rinomato suonatore di sitar Roopa Panesar lo ha portato all’idea di esplorare il potere emotivo della musica tradizionale indostana, affrontando il progetto con il massimo rispetto possibile per la cultura e la storia di questa forma d’arte musicale.

L’artwork è un’opera del poliedrico  Guillaume Cazalet, intitolata Trans-Suprematisme, che rappresenta al meglio la proposta musicale e l’ésprit del disco: uno psichedelico rettangolo in prospettiva, su cui emerge un arabesco composto da tanti frammenti di simboli che richiamano la cultura indiana, che conducono al disegno stilizzato di un sorriso che potrebbe rappresentare la felicità.  Le Sacre Du Soleil Invaincu è un viaggio iniziato proprio in quella chiesa dove è stato registrato, la ST. John on Bethnal Green, dove i Neptunian Maximalism sono entrati in una trance estatica, partorendo un’opera monumentale, in cui si fondono musica drone, classica, jazz, psichedelia ed elementi di musica indiana; infatti vengono rivisitati  tre RaagRaag Marwa, Raag Todi e Raag Bairagi – ognuno dei quali corrispondente ad uno dei tre dischi in cui è suddiviso il disco. Pertanto, oltre ai classici strumenti elettrici, troviamo elementi che danno un tocco più “etnico” al sound, come il gong, il daf, il baglama, la zurna e lo surbahar, oltre alla tromba. La pluralità di suoni è garantita, e va a spiegare la longevità di  “Le Sacre Du Soleil Invaincu”: 11 canzoni per una durata complessiva di quasi cento minuti, per un viaggio, che vi lascerà assolutamente a bocca aperta. Ma prima di cominciare quest’esperienza, dobbiamo spiegare cos’è il Raag: si tratta di una particolare struttura musicale che segue precise regole sulle frasi melodiche consentite o vietate, basato su un certo numero di scale musicali. Ognuna di queste composizioni è legata al concetto ciclico di tempo proprio della cultura indiana, e quindi ad una specifica fase della giornata a cui corrispondono determinate emozioni.

At Dusk : Raag Marwa

Il primo disco rivisita il Raag Marwa: una composizione legata all’universo maschile che trasmette emozioni di desiderio e separazione ed è collegato al tramonto. E proprio per questo la prima traccia, Alaap, è profondamente drone e d’atmosfera e ha il compito di prepararci a quello che andremo ad ascoltare. Vilambit Laya Alaap ci fa entrare nello spirito del lavoro, con suoni diversi, più particolari, caratterizzato da tempi lenti, che premiano l’elemento folk. In Unisson Composition emergono, con una certa delicatezza, gli strumenti elettrici, con apprezzabili fraseggi che si scontrano con le dissonanze –elemento tipico del black metal – creando atmosfere quasi magiche, che si fondono con il jazz. E’ come essere inghiottiti in una spirale, che ti soffoca, e dove non si ha la percezione della distanza perché tutti i punti sono equidistanti dal centro. Chiude l’onirica Dream Chord, l’accordo dei sogni, forse il brano che più fa sentire l’influenza dei Sun O))), in cui le note prolungante, le diverse sonorità, creano un’atmosfera trascendente, che lascia l’ascoltatore smarrito.

Arcana XX : Raag Todi

Il Raag Todi è quasi sempre raffigurato come una donna gentile e bella che offre divertimento e intrattenimento ai cervi nella foresta più profonda: è pervaso per lo più da uno spirito pensieroso e lugubre, successivamente alleviato; è collegato alla tarda mattinata.

Alaap On Surbahar è avvolgente, con le sue note tipiche della musica indiana dal tono cupo e misterioso, che presto si fondono con l’aspetto più drone che ci porta al secondo brano, Drut Laya, Chaotic Polyphonic Taan, caratterizzato da sonorità più disturbanti rispetto a quelle sentite fino a questo momento. E’ il brano assolutamente più black del disco: la chitarra si fa stridente, la batteria tumultuosa, le voci di sottofondo sono tetre e lamentose, con la tipica dissonanza del black, in una complessità di suoni in cui è difficile perdersi. MadhyalayaYama DCCLXXII, è pervasa da un cupo groove dal sapore prog, in cui emerge un lato psichedelico e oscuro in cui riescono ad esprimersi al meglio le chitarre, con dei passaggi molto interessanti, dissonanti e particolarmente riusciti.

At Dawn: Raag Bairag

Il terzo e ultimo atto è quello del Raag Bairag, più melodioso degli altri e appropriato per i canti. Si riconduce alle prime ore del mattino: qui, l’impressione di ascoltare un’unica canzone da trenta minuti è consistente. Vilambit Laya Alaap attinge più alla psichedelia, a note spigolose, creando un effetto stupefacente, che fa volare con la fantasia. Si passa, con grande disinvoltura, a Rite D’Ovairture & Badhat Unisson, che prosegue sulla falsariga del precedente passaggio, ma con una leggera nota acida, in cui compare il classico cantato indiano, con tendenze lamentose. Più magnetica, invece, Sthayi & Antara Composition, in cui siamo proiettati in una dimensione tra l’onirica e lo spirituale, accentuato nella parte finale della stessa, in cui le sfumature drone accentuano l’elemento trascendentale rinchiudendoci in una prigione senza sbarre. Chiude Layakari In Offer To The Cosmic Serpent un po’ come era iniziata, con il gong che apre la composizione scandendo nettamente il tempo su cui ricama il suo arabesco la tromba; presto ricamano gli strumenti elettrici contribuendo a riconducendoci sul sentiero folk e spirituale.

Conclusioni

Senza cadere negli eccessi dei Sunn O))), i Neptunian Maximalism hanno creato un disco che ripercorre quella via mitigandola, appropriandosi dei ritmi lenti, miscelando elementi doom, drone, psichedelici e folk e plasmando un’esperienza sensoriale senza precedenti, riportando l’essere umano alla sua dimensione essenziale priva di ogni sovrastruttura. Ma è altresì un complesso viaggio nelle sonorità più etniche e profonde dell’India, rielaborate in chiave elettrica da un punto di vista più “occidentale”. Il risultato di tutta questa fusion è un lavoro bellissimo, ma allo stesso tempo non accessibile a tutte le orecchie perché la sua particolarità, che è una peculiarità intrinseca di Le Sacre Du Soleil Invaincu, potrebbe non essere apprezzata tanto facilmente da un ascoltatore più “puro” e intransigente. Un disco da sentire tutto d’un fiato, il cui ascolto è agevole per via della sequenzialità musicale che caratterizza gli undici brani che lo compongono: il passaggio da una traccia all’altra, talvolta, è impercettibile, e si crea una sorta di Uroboro musicale.

Dedicatevi del tempo, provate a calarvi in questa realtà parallela e ascoltate Le Sacre Du Soleil Invaincu: ne verrete rapiti.

Ultimi album di Neptunian Maximalism