Recensione: Leave the Soul for Now
I Timeworn, norvegesi, giungono, a cinque anni dalla nascita, alla famigerata prova del terzo album, “Leave the Soul for Now”.
La band è spesso associata al metalcore, tuttavia la riduzione del suo sound a un genere soltanto appare del tutto forzata nonché, soprattutto, erronea.
Sì, perché i Nostri mischiano assieme, occorre dire con sorprendente abilità, un pot-pourri che comprende metalcore, appunto (‘Oblivion Seekers’), assieme a sludge, hardcore, post-metal e, non ultimo, grunge. Non basta? Allora non resta che aggiungere un pizzico di hard rock e la pietanza è pronta.
Un tale insieme vorticante di fogge musicali, pure diverse fra loro in maniera radicale, potrebbe far girare la testa a chiunque ma non all’act nordeuropeo. Che, ovviamente, un punto fermo deve pure avere. Punto fermo che, almeno a parere di chi scrive, trova l’hardcore come struttura di base su cui impostare le membrature destinate alla finitura esteriore.
Hardcore duro, grezzo, dai riff secchi, taglienti, tirato dalle mani dall’aspra ugola di Audun grazie a delle harsh vocals tecnicamente perfette (‘Sky Castles’). Chiaramente non ci sono solo queste ultime, nel repertorio del bravo cantante di Oslo. A volte emerge un rabbioso growling, a volte sono le clean vocals a farla da padrone che, come più su accennato, rammentano, e non poco – grazie anche ai delicati e morbidi cori di sottofondo – l’epopea del grunge (‘Hellwater’). Hardcore il quale, a mò di scultura in gesso, forma la maglia su cui viene adagiato lo sporco e fangoso tappeto di sludge (‘Count the Crosses’), in modo da dare luogo a una solida base, già dotata di uno spesso sottofondo sulla quale disegnare i paesaggi immaginari che gli altri tipi musicali più su menzionati hanno nella testa, nel cuore, nell’anima e nelle corde. A proposito di corde, i due uomini d’ascia, Erlend e Oliver, rafforzano il riffing base-hardcore con delle notevoli divagazioni dal tema sonoro centrale, allontanandosene per accogliere per esempio la melodia (‘Vagrant Heart’), ma non tranciando mai il cordone ombelicale con il nucleo artistico originario.
Stile pertanto multiforme, sfuggente a ogni classificazione, quindi potenzialmente pericoloso per chi non abbia grande dimestichezza con l’arte del songwriting; giacché, in tali casi, non ci vuole nulla per uscire dal seminato e sfilacciarsi in un insieme di canzoni senza capo né coda. I Timeworn, però, non cadono in questa trappola, mostrando, episodio dopo episodio, lo stesso modo di approcciare… se stessi. Uno stile quindi piuttosto originale, non sperimentale ma fortemente indicativo di una e una sola formazione: loro, e nessun altro. Un pregio notevole, che mette a giorno, oltre al possesso di un abbondante retroterra culturale, una classe da non prendere sottogamba nel modo più assoluto.
La storia che vede come leggende metal gli act provenienti dalla penisola scandinava, come tutti i miti, ha un fondo di verità. Questo lo sanno ormai tutti, ed è ampiamente dimostrato da anni e anni di storia del metal stesso. Anche negli ultimi, anzi, gli ultimissimi tempi, grazie, appunto, a formazioni come i Timeworn.
Che, per dare la… botta finale, propongono in chiusura del lavoro la formidabile e già citata suite ‘Vagrant Heart’. Lungo cammino che segue la morbida via del post-metal. Allora, la musica si fa intensa, emozionante, languida e malinconica; seppur calibrata, come tutto il resto, su una robusta lastra di metallo. Qui Audun modifica ancora una volta l’approccio delle proprie corde vocali, aggrappandosi al laccio della voce pulita, chiara, istintiva, d’immediata pulsione e di analoga comprensione. A mano a mano che passano i minuti, il brano aumenta d’intensità e di phatos, intrappolando l’ascoltatore, come un insetto nella tela del ragno, grazie a una non indifferente forza visionaria. Poi, ne «l’ora che volge il disio», le chitarre dipingono mirabili orpelli, sulla cui superficie scivola via la fioca luce del tramonto, che colora un assolo semplicemente straordinario per spinta sentimentale. Closing-track semplicemente stupenda.
Davvero… strani, questi Timeworn. Strani ma clamorosamente validi. Se la prova era quella del terzo disco, beh, si può dire che sia stata tranquillamente superata!
Daniele “dani66” D’Adamo